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Oasi Culturale

La vita dei pensionati della memoria

Benvenuti su “Oasi Culturale”, rubrica de ilsudest.it a cura di Alessandro Andrea Argeri e Sara D’Angelo. Oggi riflettiamo su “I pensionati della memoria”, celebre novella di Luigi Pirandello incentrata sul rapporto coi morti. Se vi va, scriveteci: redazione@ilsudest.it/alexargeriwork@gmail.com

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di Alessandro Andrea Argeri

Nel 1914 Pirandello scrive questa novella sul rapporto dell’individuo vivo con i morti, con la realtà, con i personaggi, con la nostra percezione, con la memoria. A primo impatto può sembrare un lungo, estenuante viaggio mentale; in realtà mostra come le idee alla base di “Sei Personaggi in Cerca d’Autore”, capolavoro teatrale del 1921 con cui l’autore siciliano vincerà il premio Nobel. Oltre a questo, le riflessioni contenuti in questa storia-monologo possono fornirci degli spunti di riflessione sull’importanza di ricordare chi non c’è più.

La domanda di fondo è: “Come facciamo a ricordare i morti?”. Da qui parte un dialogo-soliloquio sul confine della realtà con la finzione, non a caso il protagonista esordisce così: “Bella fortuna, la vostra! Accompagnare i morti al camposanto e ritornarvene a casa, magari con una gran tristezza nell’anima e un gran vuoto nel cuore, se il morto vi era caro; e se no, con la soddisfazione d’aver compiuto un dovere increscioso e desiderosi di dissipare”. Le persone comuni, ovvero gli amici dello scrittore, piangono il morto per un po’ prima di tornare alla vita quotidiana, considerata dal protagonista come una “benedizione”, perché con la routine si può “isolare”, cioè non pensare, l’idea della morte, in modo da poter avere un certo senso di sollievo.

“… Riflettete bene: che cosa può esser morto di loro? Quella realtà ch’essi diedero, e non sempre uguale, a sé stessi, alla vita. Oh, una realtà molto relativa, vi prego di credere. Non era la vostra; non era la mia. Io e voi, infatti, vediamo, sentiamo e pensiamo, ciascuno a modo nostro noi stessi e la vita. Il che vuol dire, che a noi stessi e alla vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà: la projettiamo fuori e crediamo che, così com’è nostra, debba essere anche di tutti; e allegramente ci viviamo in mezzo e ci camminiamo sicuri, il bastone in mano, il sigaro in bocca”.

La struttura della novella è molto particolare, tanto da poterla considerare un grande esercizio tecnico di un Pirandello nei suoi anni migliori. L’ambientazione della storia è eterea, indefinita, può essere una città, ma anche il cortile di un cimitero, insomma può essere ovunque. In generale si tratta di una conversazione sulla morte tra “uno scrittore di storie di fantasia” con i suoi amici, sebbene l’unica voce all’interno della storia sia quella del protagonista, mentre ogni volta in cui parla un altro membro del gruppo lo scrittore ripete quanto è stato detto per poi continuare.

Alla fine lo scrittore si riferisce alla morte d’un’altra persona come un “orribile ingombro”, qualcosa da cui si desidera essere liberati, così dice: “E ve ne liberate, voi, almeno di quest’orribile ingombro materiale, andando a lasciare i vostri morti al camposanto. Sarà una pena, sarà un fastidio; ma poi vedete sciogliersi il mortorio; calare il feretro nella fossa; là, e addio. Finito. Vi sembra poca fortuna?”

Dopodiché passa finalmente a descrivere la propria esperienza coi morti, i quali per lo scrittore rimangono vivi anche dopo la sepoltura, infatti “i morti fintano l’esserci morti! Fanno finta d’esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente. Se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena. Voi credete di morti? Ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi; più di prima”.

A rimanere viva è la memoria dei morti, i ricordi di una persona la rendono altrettanto reale. Eppure sarebbe semplicistico fermarsi qui, in quanto i morti sono definiti anche “disillusi”. Allora lo scrittore chiede subito quale sia la reale perdita di una persona morta. Qui la risposta è la presenza fisica, l’immagine proiettata al mondo dall’individuo, la personalità, l’identità.

Secondo lo scrittore ognuno ha una duplice realtà: il corpo con la sua presenza fisica; la soggettività. Entrambe sono tanto mutevoli quanto fragili. Inoltre il ricordo di una persona appartiene a quella persona, non al morto, la quale a sua volta ricorda con la sua soggettività, quindi descrive un’altra realtà ancora. Non a caso lo scrittore prende ad esempio il suo ricordo del “signor Herbst”, un cappellaio tedesco incontrato a Bonn più di vent’anni fa. Non importa allo scrittore se in questo momento il signor Herbst sia vivo o morto. Né importa se la piazza in cui si trovava la bottega del signor Herbst sia cambiata o rimane la stessa. Allo scrittore importa la memoria del signore, la cui vita è nelle mani di chi lo ricorda. Nel momento in cui viene ricordata, la realtà di quella determinata persona appartiene a chi lo ricorda, perché i morti non hanno una realtà per sé.

Altro punto di svolta arriva nel momento in cui lo scrittore descrive ancora una volta la sua esperienza coi morti: “Altri – parenti – qualche amico – li piangono, li rimpiangono, ricordano questo o quel loro tratto, soffrono della loro perdita; ma questo pianto, questo rimpianto, questo ricordo, questa sofferenza sono per una realtà che fu, ch’essi credono svanita col morto, perché non hanno mai riflettuto sul valore di questa realtà. Tutto è per loro l’esserci o il non esserci d’un corpo.” Il corpo, morto, si disgrega, svanisce.

Da qui la conclusione della novella è necessariamente legata al discorso del signor Herbst: “Quale realtà? Ma credete forse che la mia di vent’anni fa, col signor Herbst su la soglia della sua bottega, le gambe aperte e le mani in tasca, sia quella stessa che si faceva di sé e della sua bottega e della Piazza del Mercato, lui, il signor Herbst? Ma chi sa il signor Herbst come vedeva se stesso e la sua bottega e quella piazza! No, no, cari signori: quella era una realtà mia, unicamente mia, che non può cangiare né perire, finché io vivrò, e che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza d’eternarla in qualche pagina, o almeno, via, per altri cento milioni d’anni, secondo i calcoli fatti or ora in America circa la durata della vita umana sulla Terra.”

Ebbene per Pirandello la vita sociale obbliga ad apparire, dunque uccide l’essere. Nel momento in cui si muore non si deve più apparire, quindi si può tornare ad essere, cioè a vivere. Ecco come i “personaggi ritornano”. Il corpo materiale non ha realtà perché la realtà è soggettiva e quindi una realtà oggettiva non esiste. Infatti lo scrittore dice di un morto qualsiasi: “È partito. Ritornerà.” Per questo i rapporti vivo/morto vengono ribaltati: chi ha il corpo vivo è il vero morto, mentre chi è sepolto è il vero vivo. Il tutto è racchiuso in queste battute:

“Ora ch’egli è morto, voi non dite più:

–    Io non sono più viva per lui! Dite invece:

–    Egli non è più vivo per me!

Ma sì ch’egli è vivo per voi! Vivo per quel tanto che può esser vivo, cioè per quel tanto di realtà che voi gli avete dato. La verità è che voi gli deste sempre una realtà molto labile, una realtà tutta fatta per voi, per l’illusione della vostra vita, e niente o ben poco per quella di lui”. Insomma, non si muore, a patto di essere ricordati senza dover cotninuare ad apparire.

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