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Oasi Culturale

A che servono i monologhi?

Benvenuti su “Oasi Culturale”, rubrica de ilsudest.it a cura di Alessandro Andrea Argeri e Sara D’Angelo. Oggi proponiamo una breve riflessione sui monologhi dopo aver osservato le esibizioni dei superospiti di Sanremo 2023.
Se vi va, scriveteci: redazione@ilsudest.it/alexargeriwork@gmail.com

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di Alessandro Andrea Argeri

Durante la settimana di Sanremo 2023, diventato a tutti gli effetti una nuova festa nazionale, si è parlato molto dei monologhi pronunciati dai superospiti, tanto da mettere in secondo piano persino le canzoni, attrazione principale del festival. Certamente questa edizione ha avuto alcune “sbavature”, ma del del resto le critiche erano prevedibili considerata la presenza di Fedez. Tuttavia c’è stato anche tantissimo di buono, abbastanza da scacciare ogni ragionevole critica.

Il monologo è adatto agli spettatori, ma non alla democrazia, per la quale invece è fondamentale il dialogo, perché solo attraverso il confronto di punti di vista differenti si può giungere al progresso. Nella democratica Atene della Grecia antica i più grandi filosofi hanno scritto dialoghi, i capi politici si confrontavano nell’agorà, mentre gli oratori venivano guardati con diffidenza. Nel rinascimento poi il dialogo tornò ad essere il genere letterario più in voga, assieme al trattato, antenato del nostro saggio, il quale presuppone comunque una coppia di interlocutori: l’autore direttamente interfacciato con il lettore.

Se il dialogo mostra una forte tendenza collettiva, comunitaria, aggregativa, il monologo rappresenta il più estremo individualismo, non a caso spopola nel teatro, dove serve per esternare quanto più possibile l’interiorità del personaggio, oratore incontrastato in quanto unidirezionale. Non è un caso se il più famoso monologo della storia sia proprio quello dell’Amleto, dove il fatidico dubbio “to be or not to be” rimane irrisolto. Ma non si può dimenticare, come sottolineato da Antonio Polito sul Corriere, quello del Grande Dittatore di Charlie Chaplin, ricco di affermazioni incontestabili per assenza di contraddittorio, finché qualcuno alla fine non ci casca.

Il monologo è la principale forma di comunicazione nel nostro Paese, gli unici dialoghi sono ormai i trash talking del talk show, dove uno parla sull’altro, finalizzati al litigio più feroce per aumentare l’audience. Ebbene senza dialogo non c’è democrazia perché manca il punto di vista differente, dunque un confronto, l’indispensabile condizione di indossare l’uno i panni dell’altro, o almeno di provarci. Magari sulla scorta di queste riflessioni per il prossimo Sanremo potremmo cambiare la tradizione dei monologhi, anche perché da quando li ricordo sono sempre stati di un’ovvietà assurda, vuoi per mancanza di idee, vuoi per timore di critiche.

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