Editoriale
LA STRAGE DI CAPACI, TRENT’ANNI DI FOSCHIA
Alle 17:58 del 23 maggio 1992 il dito di Giovanni Brusca polverizza l’esistenza di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Di Pierdomenico Corte Ruggiero
Oltre cinquecento kg di tritolo devastano un tratto dell’A29 nei pressi dello svincolo di Capaci. Uno scenario di guerra.
L’onda d’urto attraversa la Sicilia e l’Italia intera. Non era il primo attentato contro uomini dello Stato e non sarà l’ultimo. Il 19 luglio 1992 toccherà a Paolo Borsellino e alla sua scorta morire per mano mafiosa.
La morte di Giovanni Falcone ha un significato particolare. Per la figura del magistrato, che incarna tutti i valori della lotta alla mafia. Lui e Borsellino avevano ideato la strategia per colpire il potere mafioso. Individuare e sequestrare i soldi illecitamente guadagnati. Con il Maxiprocesso avevano dimostrato che la mafia poteva e doveva essere sconfitta.
La bomba di Capaci è la dichiarazione di guerra allo Stato da parte dei corleonesi di Totò Riina. Per decenni mafia e politica avevano dialogato, facendo ottimi affari. Un patto stretto tra politica e malavita. Quando Piersanti Mattarella, presidente democristiano della regione Sicilia, cerca di spezzare questo patto criminale viene prima isolato dai compagni di partito e poi ucciso il 6 gennaio 1980.
Nel 1992 i rapporti tra referenti politici e Riina non sono buoni. Il boss non è soddisfatto anzi è furioso. Pretendeva l’intervento degli “amici” per cancellare le sentenze del Maxiprocesso. Sentenze che la Cassazione invece conferma. La rabbia mafiosa porta il 12 marzo 1992 all’omicidio di Salvo Lima, uomo di Andreotti in Sicilia.
Un messaggio di morte che Giulio Andreotti comprende. Politicamente, però, l’Italia attraversa un terremoto. Le elezioni dell’Aprile 1992 hanno certificato la crisi dei partiti storici. Avanzano Tangentopoli e la Lega Nord di Bossi. Nulla sarà più come prima.
Si crea un vuoto di potere. Che i corleonesi di Riina vogliono riempire a modo loro. Di cadaveri. Hanno risolto sempre così ogni problema. Falcone e Borsellino sono un grosso ostacolo per i piani mafiosi.
Allo stesso tempo, però, sono un bersaglio facile. Perché sono isolati. Criticati da certa stampa e da certa politica. Osteggiati da una parte della magistratura palermitana e romana. Falcone e Borsellino vengono estromessi dai vertici apicali degli organismi deputati alla lotta contro le mafie. Inoltre, possono fidarsi di poche persone. Custodiscono gelosamente i documenti più importanti.
Giovanni Falcone è costretto ad accettare l’incarico a Roma offerto dal Ministro Martelli. Paolo Borsellino lavora sempre più isolato. Scarse anche le misure di sicurezza. Come dimostra il tentato attentato dell’Addaura nel 1989 ai danni di Giovanni Falcone.
Dubbi anche sulla dinamica della strage di Capaci. I movimenti di Giovanni Falcone erano tenuti segreti. Eppure, la mafia riesce a colpire con precisione. Quando poi si tratterà di uccidere Paolo Borsellino i killer potranno parcheggiare comodamente una macchina piena di tritolo davanti il palazzo dove viveva la madre del magistrato.
Sono passati trent’anni. Di processi, sentenze e commemorazioni. Una fitta foschia, però, avvolge ancora la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Depistaggi, documenti scomparsi, la complicità di apparati dello Stato. Indagini e processi cercano di far luce in questa foschia.
Foschia che avvolge anche gli attuali rapporti tra politica e lotta alle mafie. Una politica spesso distratta quando si parla di antimafia, non sempre reattiva nel contrasto all’infiltrazione mafiosa nell’economia.
A noi resta la più importante lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La legalità deve essere patrimonio di tutti e di ciascuno. Perché le mafie possono uccidere un singolo. Non una comunità.
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