Economia & lavoro
L’assassinio di Marco Biagi ovvero la scelta dell’unità di misura
Vent’anni fa Marco Biagi veniva assassinato dalle Brigate Rosse. Il suo ricordo in fondo non fa poi così notizia, non la fa ancora e forse non la farà mai, almeno non come altri uomini assassinati in questo paese per ragioni legate allo svolgimento del proprio lavoro, come i giudici Falcone e Borsellino. Questo perché Biagi e la sua idea di tutela del lavoro dividono ancora.
di Rosamaria Fumarola
Vent’anni fa Marco Biagi veniva assassinato dalle Brigate Rosse. Il suo ricordo in fondo non fa poi così notizia, non la fa ancora e forse non la farà mai, almeno non come altri uomini assassinati in questo paese per ragioni legate allo svolgimento del proprio lavoro, come Falcone e Borsellino, ma tanti altri nomi potrebbero purtroppo essere fatti.
Il 19 marzo 2002, a Bologna, le Nuove Brigate Rosse spararono dunque al giuslavorista, mentre faceva ritorno a casa in sella alla sua bici. Erano anni molto diversi da quelli che avevano visto Aldo Moro sequestrato ed assassinato e differenti erano le ideologie che motivavano le Nuove BR rispetto a quelle delle origini. Farsi un’idea di brigatisti come Nadia Desdemona Lioci, coinvolta nell’omicidio tanto di Biagi quanto di D’Antona, non era e non è facile, proprio perché non inseriti in una rete ideologica diffusa ed identitaria, come quella dei terroristi di sinistra dei decenni precedenti. Leggere il contesto è però meno complesso.
Nel 2001 gli operai non interessavano più a nessuno. Avevano vinto l’edonismo reaganiano, il consumismo e la globalizzazione e le lotte degli anni ’70, soprattutto quelle armate, erano un ricordo e per molti una dolorosa ferita di cui non parlare più. A lottare era rimasto l’individuo da solo, senza più fiducia in tutto ciò che è collettivo.
Chi come me negli anni 90 studiava giurisprudenza, aveva la sensazione che il diritto del lavoro, più che strutturare forme di tutela autentiche, tratteggiasse ormai delle aspirazioni, o meglio sogni battuti sul campo dalla realtà, concetti estraniati dall’esperienza quotidiana, tanto da farne sembrare privo di senso lo studio. Che il mondo del lavoro stesse cambiando più degli altri lo sapeva bene Marco Biagi, che sapeva anche che le vecchie forme di tutela avevano ormai perso la loro efficacia, proprio perché non aderenti più al reale. Adeguarsi per lui significava rendere la condizione del lavoratore più flessibile e capace di adattarsi ad un mondo ormai cambiato, nel quale al centro non c’era più l’operaio ed i suoi diritti, ma appunto solo il lavoro e sempre più da rincorrere. Questo nuovo contesto non era il frutto di interventi legislativi caldeggiati da Marco Biagi, ma un nuovo assetto che non riguardava solo l’Italia. Il giuslavorista offrì ai governi con cui collaborò delle nuove tutele per i lavoratori, osteggiate e fortemente dai sindacati di sinistra di allora, con i quali condivise sempre però l’analisi della problematica in oggetto.
Biagi era parte di un dibattito politico nel quale non trovava sostegno ad esempio in persone come me. Non ho mai smesso di credere tuttavia che il dibattito sia necessario in un sistema democratico e che sia un errore, da qualunque punto di vista la si guardi, l’annullamento dell’avversario con mezzi non politici, se la discussione si svolge su di un piano appunto politico.
Un tempo a sinistra molti sostenevano che la rivoluzione non fosse un pranzo di gala e che per farla fosse necessario sporcarsi le mani. Bisogna tuttavia intendersi: io per formazione non ho mai smesso di credere nella democrazia, pur militando sempre a sinistra, e non ho mai auspicato una rivoluzione che non rispettasse tutte le componenti dell’animo umano e soprattutto la sua individualità e per questo mi domando a cosa serva un sistema che prescinda da questa misura, contemplando solo quella offerta dalle masse. Le masse non sono composte di uomini? La mia lontananza dalle ragioni della lotta armata ha sempre avuto a che fare con la scelta dell’unità di misura, che deve essere realista e partire dalle esigenze dell’individuo. Lascio l’indottrinamento e la manipolazione delle masse a uomini come Putin o quelli che lo hanno preceduto. Questo è però un altro discorso.
La riforma del lavoro Biagi con o senza di lui è diventata legge, benché molti abbiano lamentato una lontananza da quella che il docente avrebbe voluto. Non mi piacevano né l’una né l’altra e sono persuasa che soluzioni migliori possono sempre essere cercate, a prescindere da un sistema che ci vuole perdenti e che dunque anche all’epoca si potesse fare di meglio. Lo penso perché non vi è nulla della condizione attuale dei lavoratori che ne rispetti la dignità e le legittime aspirazioni. In gran parte tutto ciò è stato inevitabile e forse faceva bene Biagi a volersi lasciare alle spalle i risultati di tante lotte operaie e sindacali, avendo la certezza che sarebbero risultate inadeguate a tempi e realtà ormai mutate, perché è evidente che nuove lotte, con nuovi obiettivi, debbano cercare e trovare realizzazione. Come sopra scritto, sarebbe un errore comunque pensare che tutele migliori non potessero approntarsi, perché la scelta, la sintesi, possono, come la storia insegna, essere anche frutto di una nuova visione, della creatività e dell’immaginazione. Anzi la realtà e dunque la storia hanno sempre un quid fino ad un attimo prima impensabile e la cui individuazione si deve sempre alle risorse dell’uomo, talvolta alla sua fantasia. Geni come Einstein o Rita Levi Montalcini hanno in più di un’occasione sottolineato come le loro scoperte in ambito scientifico non sarebbero state possibili senza una componente immaginativa, senza una visione talvolta lontanissima dalla realtà, ma questo non può essere chiesto di default a chiunque sia per lavoro chiamato a cercare soluzioni a problemi. Peraltro l’inconciliabilità tra gli interessi individuali e quelli collettivi, che gruppi armati come le BR hanno sostenuto, rivela una lettura del reale “ad una dimensione” che proprio per questo è destinata a fallire. Una simile visione non è lontana da quella del soldato, che per il potere belligerante perde individualità e libertà in nome di un interesse che gli viene prospettato come più grande. Questa idea, nonostante permanga in molte parti del mondo e gli ultimi scontri tra Russia ed Ucraina ne siano la prova, ha fatto il suo tempo. Anzi sarà proprio questa una delle ragioni che porterà la Russia prima o poi a capitolare. In conclusione, trovo non peregrino ricordare più che le mie, le parole di una celebre ballata di Boris Vian: “Io non sono qui per ammazzare la gente più o meno come me. Che vengano pure a prendermi, io armi non ne ho”.
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