Scuola
La distopia dell’istruzione: “Io sono un fallimento”
Recentemente varie testate giornalistiche e notiziari hanno riportato casi di suicidio da parte di giovani vittime dello studio. Un unico filo conduttore lega questi tragici episodi: sentirsi un fallimento, sbagliati, pressati e impotenti.
Recentemente varie testate giornalistiche e notiziari hanno riportato casi di suicidio da parte di giovani vittime dello studio. Un unico filo conduttore lega questi tragici episodi: sentirsi un fallimento, sbagliati, pressati e impotenti.
Qualche mese prima uno studente fuorisede di giurisprudenza, trovato deceduto, dopo aver mentito alla propria famiglia sul conseguimento della laurea. Giorni prima invece, un altro studente di Medicina aveva scelto di suicidarsi, non prima di aver scritto ai suoi cari. A caratterizzare quella lettera erano parole di sconforto, rinuncia, umiliazione, ansia e dolore.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 2022 si sono registrati circa 2000 suicidi, di cui un’alta percentuale dovuta proprio allo studio. Nelle università della Corea del sud la percentuale aumenta notevolmente a causa della disumana pressione a cui gli studenti sono sottoposti, nel disperato tentativo di raggiungere dei modelli inimitabili.
A tal proposito, recentemente si è parlato di Carlotta Rossignoli, laureata in anticipo a soli 23 anni. In un’intervista la giovane dichiarava che alla base di tale traguardo vi era la percezione del sonno in qualità di lusso, poco necessario per un obiettivo tanto importante. In risposta ad un fenomeno di tale portata, diverse sono state le lamentele da parte dei colleghi e di tanti altri studenti che hanno rifiutato l’adesione all’atteggiamento della studentessa.
Alla base di questi avvenimenti si cela una duplice bugia. La prima è quella costruita dai giovani, che raccontano successi lavorativi mai ottenuti o di esami mai dati. Ci si trova sempre ad un passo dalla laurea, di un esame quasi pronto o conseguito, ad un passo da un baratro profondo di menzogne.
La seconda, e forse la più grave, è quella di un sistema che illude, sollecita alla perfezione e ad un confronto continuo con il prossimo. L’esempio più pertinente nasce dall’esistenza del voto come criterio valutativo . Che siano interrogazioni o esami orali, allo studente viene assegnato un voto come valutazione della performance già dalle scuole elementari. Nasce una gerarchia invisibile tra chi presenta la valutazione migliore e chi la peggiore, chi studia in tempi rapidi e chi riscontra difficoltà. Il tutto escludendo i vari impegni che possono rallentare lo studio, possibili disabilità, disturbi, problemi famigliari.
La folle scalata verso il successo prevede, in alcuni casi, delle umiliazioni per coloro che non riescono a raggiungere in poco tempo il traguardo. Diversi sono stati gli episodi in cui studenti venivano ridicolizzati a seguito dell’esposizione. Frasi come: “Lei non merita di frequentare questa facoltà”, “Non pensi proprio di presentarsi al prossimo appello!” ormai normalizzate. Si va a ledere uno dei principi più importanti per i cittadini, ossia quello dello studio come diritto necessario alla formazione dei singoli.
Come dichiarato dal ministro dell’istruzione, Giuseppe Valditara, il principio dell’umiliazione dovrebbe servire a motivare gli studenti, sfruttando l’antico metodo della carota e del bastone. Viene aggiunto come lo studente, pur denigrato anche di fronte ai suoi compagni, debba riconoscere le proprie debolezze ed errori, da cui imparare.
Doveri e silenzi
Ad essere ignorati, ancora una volta, sono i sentimenti di chi viene definito un fallimento, non meritevole di inseguire i propri sogni. A prevalere, è un’idea passatista e arcaica, che vede come unica soluzione per dei ragazzi “svogliati” dei lavori socialmente utili. Tutto questo sempre in concomitanza con la visione dei giovani in quanto demotivati, sfaticati e troppo poco disposti al sacrificio.
Quando sarà il momento per le istituzioni di guardare ai mutamenti della società e liberarsi dai ricordi nostalgici?
Da questo mondo distopico nasce un martirio verso la bellezza sacrale del “tempo libero”, ormai di classe B. Gli oneri assegnati agli studenti, le numerose pagine da studiare diventano di dovere. In presenza delle lamentele da parte degli alunni si erge un muro fatto di incomprensione e poca tolleranza verso ogni forma di innovazione.
A giustificare tutto ciò sono le voci di alcuni docenti, che cadono nel confronto tra l’elogio di un vecchio sistema e le critiche sui bisogni delle nuove generazioni.
La pressione che si crea è talmente alta da implicare situazioni come stress, ansia da prestazione, depressione e una svalutazione delle istituzioni. Nulle sono le grida di aiuto invocate dai giovani, sistematicamente ignorati da coloro che dovrebbero tutelarli.
Si ricordi come l’istruzione nasca dall’esigenza di soddisfare quella sete di conoscenza, intrinseca dell’uomo. Allora, come nei tempi odierni, vi era una figura colta che impartiva il proprio sapere, trascritto su supporti specifici. Nelle scuole pitagoriche erano solo gli allievi più maturi ad avere il privilegio di poter interagire con il maestro, posto dietro un tendaggio, a discapito degli studenti più giovani. Questi ultimi, allora come oggi, avevano il compito di imparare passivamente nozioni non sempre utili per il quotidiano.
La scuola sì insegna il passato, gli errori morali da non commettere, i dolori e le gioie di coloro che ci hanno preceduto. Allo stesso tempo non educa su aspetti quali l’economia, i diritti degli studenti, la provenienza degli alimenti di cui ci nutriamo e così via. Sembra più rilevante la storia di sumeri, babilonesi ed assiri, che apprendere le strategie di concentrazione e come strutturare uno studio efficace.
Da una parte vi sono docenti privi di entusiasmo che insegnano argomenti riproposti nei gradi scolastici precedenti. Dall’altra si collocano gli alunni, a volte poco propensi ad interrogare il docente.
Ad arricchire un quadro già problematico sono le strutture poco curate, a causa degli scarsi fondi elargiti dallo Stato. Per quanto l’istruzione sia un tema di discussione, si predilige trattare questioni come “la dittatura gender” che di scuole ormai a pezzi.
Non si dimentichino i casi di studenti e alunni deceduti a causa di ipotermia, per mancato funzionamento dei termosifoni o per edifici costruiti con materiali antiquati.
L’educazione sessuale diventa poi uno dei tabù più cruciali nel sistema scolastico. Quest’ultimo accoglie la sessualità con un sorriso confuso, con scusanti prive di argomenti, lasciando i giovani disinformati. Ne consegue da una parte il mancato uso di metodi contraccettivi e quindi un maggior rischio di malattie virali. D’altro canto i giovani stessi si affidano al mondo della pornografia, arrivando ad una diminuzione della qualità della vita sessuale.
Come fosse un’equazione inevitabile, il confronto tra diseducazione e la realtà esterna implica ansia, angoscia, un senso di inettitudine. Tutto questo anche a causa di un sistema contraddittorio, che vede affiancarsi risultati da record, lauree ottenute in pochissimo tempo, e studenti che rinunciano allo studio o preferiscono farla finita.
In questo labirinto di massi che cedono, cosa manca di concreto?
La risposta a questa domanda sta nella comunicazione. Difficilmente nelle scuole secondarie vengono dedicate delle giornate alla salute mentale degli studenti. Non c’è da stupirsi se si preferisce invece rincorrere i tempi di scadenza di programmi scolastici noiosi e da svecchiare. Diventa quasi obbligatorio creare un sistema di confronto, come si è detto prima, fra gli alunni più bravi e quelli difficili.
Tale sistema persiste anche nel mondo universitario, tra chi quella scalata la percorre facilmente e chi si interfaccia, spaesato, con un nuovo mondo. In esso si rischia di diventare delle figure anonime, semplici numeri di matricola segnati come monito, vittime di una lotta estenuante verso il raggiungimento della laurea. Non sempre questo obiettivo viene realizzato nei tempi prestabiliti, ed è qui che si annida il senso di inferiorità, inadeguatezza, con la classica espressione “fuori corso”. Ad un primo impatto sembrerebbe di avere a che fare con dei prodotti alimentari, che vanno consumati entro una specifica data prima di ammuffire. Allo stesso modo per gli esami, il cui conseguimento segna il valore e l’impegno di uno studente nel corso della sua carriera. Poco importa se dietro a quell’esame si è celato tanto impegno: di rilevanza è solo il voto, quel valore che dei terzi conferiscono.
Si innesca così un meccanismo dato dal riconoscimento del valore sulla base del giudizio altrui. Un giudizio che, come si evince, molto spesso non è congruente, né premia il lavoro dietro alla preparazione di un’interrogazione o di un esame. La reificazione dell’individuo diventa l’unica metodologia di riconoscimento, mentre a perdersi è gran parte del valore umano.
Si aggiunge anche l’assenza di supporto psicologico non solo per sostenere e incoraggiare gli alunni, ma per gli stessi docenti. Non si sottovaluti il loro ruolo, e come tale professione riguardi sia le mura scolastiche che quelle private.
Spesso vige il mito degli psicologi come guaritori di pazzi, figure di poco conto e quindi non rilevanti. Diverse ricerche hanno mostrato come la presenza di uno psicologo scolastico possa prevenire la diminuzione del disinteresse verso lo studio, incoraggiare la curiosità degli alunni e migliorare il confronto con i docenti.
Ad annoverarsi anche: difficoltà familiari, spazi poco idonei allo studio, strategie di apprendimento fallaci, che vanno trattate e poste in discussione.
Come già esposto in precedenza, i programmi scolastici vedono al vertice degli argomenti trattati in tutte le salse e approfonditi in modo marginale. Diversamente sarebbe consigliabile proporre nuovi argomenti, includere delle lezioni interattive dove a prevalere siano il dialogo e l’ascolto. Anche in questa circostanza ritorna l’assenza di laboratori o di attrezzature adatte. Da inserire anche dei programmi di educazione ambientale, che istruiscano sull’importanza di un consumo consapevole degli alimenti e valorizzino il patrimonio culturale offerto dal nostro paese.
Una possibile soluzione
In sintesi da ristabilirsi è quel “daimon” socratico, basato sul chiedersi costantemente il perché delle cose. Non è una sfida impossibile, ma solo ingegnosa: attività online, cartelloni, sfide a squadre ma senza premi o un senso aggressivo di competizione.
Prendersi delle giornate per la spiegazione di aspetti legati al quotidiano: pagamento delle bollette, partita IVA e politica. L’unico fine da proporsi è quello di creare un cittadino responsabile, propenso al presente, con un occhio al passato, e ingordo di un futuro sostenibile e ricco di possibilità.
Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, noi stessi diventiamo qualcosa di nuovo (Leo Buscaglia)
E dunque da imparare non sono le classiche nozioni sull’importanza dello studio, bensì tutte le strategie che lo rendano coinvolgente, comunicativo ed emotivo. Trovare il modo di arrivare al cuore dei giovani, insegnar loro l’importanza del rispetto dei propri tempi. Imparare a dar spazio al tempo libero, alle riflessioni e interventi. Imparare a non sentirsi come il fallimento di un sistema che da tempo ha smesso di funzionare, sorridere tra i banchi e vivere di sguardi attenti e ingordi di sapere.
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