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Il cane morde l’uomo vestito di stracci

Esiste una legge che rema contro l’evoluzione dell’uomo. I napoletani la sintetizzano efficacemente con il detto “O’cane mozzeca semp o’stracciat “: il cane morde sempre chi è vestito di stracci. Cosa si intende con questa espressione?

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Credit foto Giunti.it

Esiste una legge che rema contro l’evoluzione dell’uomo. I napoletani la sintetizzano efficacemente con il detto “O’cane mozzeca semp o’stracciat “: il cane morde sempre chi è vestito di stracci. Cosa si intende con questa espressione?

È la sintesi di una verità amara che ci governa tutti senza distinzione alcuna e che ci porta, senza che spesso se ne abbia consapevolezza, ad accanirci contro chi è già in difficoltà ed incapace di difendersi.

Nonostante la religione, la cultura e le leggi, con strumenti e per fini diversi abbiano cercato e cerchino di “correggere” questo impulso invincibile, esso non ha mai accennato, nella storia dell’uomo, a una  qualche forma di resa: l’essere umano, al cospetto della debolezza dei suoi simili, la deride e trova in essa un elemento che gli consenta, rafforzando il proprio ego, di esorcizzare tramite le fragilità altrui, quelle proprie.

Questa legge trova un suo corrispondente speculare in quella che ci spinge sempre a voler salire sul carro del vincitore, chiunque esso sia e comunque lo sia diventato.

Non vi è un motivo razionale per deridere chi è già deriso da tutti, ma allo stesso modo non vi è una ragione degna di questo nome per venerare chi già ci appaia potente o bello o ricco, attribuendogli anche una superiorità etica, eppure continuiamo non solo a deridere il debole ed a rispettare e sostenere il forte, ma a perpetuare questo modello ancestrale, facendo sì che, non approfondendo le ragioni della sconfitta o della vittoria degli esseri umani, finiamo per voler assomigliare a chi non sempre merita la nostra stima, ricreando le condizioni per il perpetuarsi dell’ingiustizia.

Altrettanto sorprendente è che sia poi proprio “o’stracciat”, quell’uomo vestito di stracci, ad ambire a voler essere come il suo aguzzino, come se fosse lui stesso la colpa del di lui accanimento. È accaduto durante gli anni nei quali i neri d’America hanno lottato per l’emancipazione ed accade nelle nostre strade oggi, strade in cui gli immigrati non desiderano altro che diventare come noi e trasmettono tale obiettivo fondamentale ai loro figli.

È forse questo che qualche anno fa spinse Toni Iwobi, il senatore leghista di colore, a sposare la causa del Carroccio o ragioni di mero opportunismo ed astuzia personali?

Nel dubbio, una cosa è certa e cioè che Iwobi appare a tutti come un servitore piuttosto che come un padrone e soprattutto che padrone non lo sarà mai.

Ciò che muove Toni Iwobi non è in fondo lo stesso limite che fa sì che grandi ribelli che hanno contestato l’ordine costituito, una volta saliti al potere, ne abbiano riprodotto più o meno fedelmente il modello?

Mi si risponderà che quelli che sto stigmatizzando come limiti, sono in realtà proprio le leggi che hanno consentito all’uomo di non estinguersi, facendo prevalere in natura ciò che è forte e bello e che dunque sarebbe tutt’altro che una buon proposito ipotizzarne un cambiamento. In  effetti tale obiezione non è del tutto priva di fondamento, se non fosse che l’uomo non appartiene solo ad una specie, quella animale, della quale fa parte ma le cui regole  non governa, ma anche di un consorzio al quale ha scelto di appartenere e  di cui da sempre fissa le regole con l’intento di migliorare la convivenza civile tra quanti ne facciano parte e che tali regole hanno senz’altro contribuito al lungo cammino per il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, come  la storia ci insegna, pur non mutando nella sostanza i loro istinti primari.

Credere che le leggi, la cultura, le ideologie o la religione siano in grado di migliorarci, di scalfire l’impulso di prevaricazione verso il debole, il servilismo verso i potenti, di renderci governanti migliori di coloro contro i quali abbiamo combattuto è un’aspettativa ottimistica ma pur sempre indispensabile e necessaria.

Non esistono infatti metodi alternativi all’emancipazione dell’individuo dai propri limiti che non siano quelli prodotti dal sapere delle comunità in cui vive ed opera.

Rosamaria Fumarola. 

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano