Cultura
Generazione autistica, intervista al professor Daniele Giancane
Tempo fa, durante il rito ormai quotidiano, dell’aggiornamento di stato su facebook, mi sono imbattuta in un post nel quale l’autore, il professore Daniele Giancane, docente di letteratura per l’infanzia presso l’ Università degli Studi di Bari, esprimeva tutta la sua amarezza per il venir meno della consuetudine che vedeva gli allievi partecipare attivamente alle lezioni universitarie. Incuriosita, ho contattato il docente per conoscere meglio il suo punto di vista.
Tempo fa, durante il rito ormai quotidiano, dell’aggiornamento di stato su facebook, mi sono imbattuta in un post nel quale l’autore, il professore Daniele Giancane, docente di letteratura per l’infanzia presso l’ Università degli Studi di Bari, esprimeva tutta la sua amarezza per il venir meno della consuetudine che vedeva gli allievi partecipare attivamente alle lezioni universitarie. Il professor Giancane lamentava la totale assenza di partecipazione attraverso domande o la semplice espressione di opinioni da parte dei ragazzi, capaci ormai solo di prendere appunti e di formulare domande relative ai programmi di studio. Per tale ragione si era deciso a chiedere direttamente agli studenti, quale fosse la causa di quel comportamento e dopo qualche insistenza si era sentito rispondere che la ragione risiedeva nel fatto che non avevano più sogni. Mi sono domandata allora se fosse possibile che i giovani fossero cambiati al punto tale da snaturarsi, da non identificarsi più con ciò che da sempre e per antonomasia li aveva caratterizzati. Con un po’di cinismo ho persino pensato che quel rispondere che non avevano più sogni testimoniasse più un parlare per slogan che il risultato di una riflessione profonda. Consapevole però di non disporre di mezzi sufficienti alla comprensione del problema, ho contattato il professor Giancane per avere qualche delucidazione in merito alla questione da lui sollevata. Quanto segue è dunque il risultato del felice scambio di opinioni che ne è seguito, di cui sono grata al professore per avermi offerto un punto di vista convincente e mai banale della problematica, rischio questo mai del tutto scongiurato, anche quando si interloquisce con chi si proponga di partecipare attivamente ai dibattiti culturali di questi anni.
D. Professore, quando ha incominciato il suo insegnamento presso Università di Bari?
R. Ho incominciato ad insegnare nel settantacinque e sono andato in pensione un mese fa. Per oltre quarant’anni mi sono occupato quasi esclusivamente una materia che per me è la più bella del mondo: la letteratura per l’infanzia, materia nella quale ho avuto la fortuna di produrre decine di saggi, studi ed opere.
D. Com’erano gli studenti del settantacinque?
R. Sicuramente erano molto più motivati di oggi, perché allora c’era la lotta per raggiungere l’emancipazione culturale offerta dalla laurea. La mia facoltà, Scienze della Formazione, si differenziava dalla Facoltà di Lettere perché, se quest’ultima era frequentata dai figli dall’élite, la mia dai figli della gente un po’più umile, soprattutto della provincia, la quale aspirava ad avere una laurea per impiegarsi in campo educativo. Fare il maestro o la maestra non è stata mai infatti un’ambizione della classe sociale alta, ma sempre di quella media. La mia facoltà era dunque frequentata da studenti fortemente interessati ad emanciparsi dalla propria famiglia, perlopiù composta da operai o contadini.
D. Lei, nel suo post su Facebook, scriveva di un interesse degli studenti che nel tempo è venuto sempre più erodendosi fino ad arrivare all’assenza totale di partecipazione. Come la legge lei quest’assenza di intervento da parte dei ragazzi?
R. Guardi, io sono stato un docente atipico, ho sempre impostato le lezioni con gli studenti in maniera dialettica e che, partendo dall’idea che nessuno abbia la verità in tasca, sia importante discutere e che ognuno dica la sua.
D. L’insegnamento dunque come crescita anche per il docente?
R. Certo, altrimenti tutto sarebbe di una noia mortale! I ragazzi rispondevano con interesse perché si sentivano coinvolti. Mi sono poi sempre sforzato di far sì che lo studio astratto diventasse un fatto concreto.Le faccio un esempio: la fiaba. La fiaba è un mondo meraviglioso su cui si può discutere per anni, con interpretazioni psicoanalitiche, folcloriche. Ecco, ad esempio io chiedevo ai ragazzi al termine della lettura di una fiaba, che quasi sempre si conclude con ” si sposarono e vissero felici e contenti” , quale fosse l’ambizione della loro vita, se per loro l’ideale fosse ancora sposarsi e vivere bene materialmente. Questa domanda l’ho fatta spesso e le risposte col trascorrere del tempo sono molto cambiate, in particolar modo da parte delle ragazze. Venti o trenta anni fa ponevano al vertice delle finalità esistenziali l’amore e solo al secondo posto il lavoro. Piano le cose sono cambiate e da almeno dieci anni sono cambiate totalmente: oggi le ragazze pongono al primo posto il lavoro e al secondo l’amore. Assistiamo dunque ad un totale capovolgimento delle aspettative femminili ed è questa la ragione per la quale le donne oggi sono molto motivate a realizzarsi e risultano essere più in gamba dei maschi che, soprattutto negli ultimi anni ho trovato senz’altro più deludenti negli studi.
R. Però sembrerebbe che questo non corrisponda alle occupazioni svolte, ai ruoli effettivamente ricoperti nella società…
R. Questo accade perché la società fa sempre fatica ad adeguarsi ai cambiamenti. Tornando alla questione del rapporto con gli studenti, posso affermare che il loro coinvolgimento ha sempre riscosso un certo successo e l’aula universitaria diventava un salotto splendido di discussione. Tuttavia negli ultimi anni questa partecipazione è andata sempre più calando e quando chiedevo ai ragazzi di esprimere una loro opinione non interveniva più nessuno ed ero costretto a sollecitarli ad personam e sempre con risultati scarsi. Oggi i giovani sono sempre più demotivati anche a discutere ed è questa la ragione per la quale mi decisi a chiedere loro come mai questo avvenisse.
D. Devo confessarle professore, che una delle cose che di più mi ha colpito del post che lei ha scritto su Facebook è che per ottenere una risposta ha dovuto formulare la domanda per ben due volte!
R. Sì, infatti solo dopo la seconda volta un ragazzo si è alzato e timidamente mi ha detto: “Sa cos’è professore? È che noi non abbiamo più sogni” mentre gli altri annuivano senza intervenire. Questa cosa mi ha colpito molto e mi ha fatto riflettere, facendomi giungere ad una conclusione. Fino a quindici anni fa, dopo la laurea nella mia facoltà, si verificava un’immissione quasi immediata nel mondo del lavoro. Adesso, passano anni prima che chi si laurea riesca a trovare un impiego e questo non può non aver influito sul comportamento anche in aula degli studenti. Ma la motivazione più profonda a mio giudizio va ricercata altrove. Io ho sempre pensato che nella vita la cosa essenziale fosse capire perché si sta al mondo e sono convinto che ognuno abbia una propria vocazione, ma che non tutti riescano ad individuare quale sia e qui la colpa è senz’altro ed in maniera clamorosa della scuola.
D. Ha ragione,la formazione di un identità non è cosa semplice…
R. La scuola si occupa oggi di tutto tranne che di questo, che invece è,secondo me,la cosa più importante della quale la scuola dovrebbe farsi carico.
D. Farti capire chi sei attraverso ciò che meglio sai fare…
R. Personalmente ho sempre consigliato ai ragazzi di scegliere un lavoro che piaccia loro, altrimenti sono destinati a vivere da fantasmi, una vita infelice.
D. Primo Levi sosteneva che troppo spesso si sottovaluta la felicità che ci può venire dal lavoro…
R. Vero. La scuola fa acqua da tutti i punti di vista ed in particolare da questo, nel riuscire cioe` a dare un senso alle vite dei ragazzi. Io vengo da anni nei quali era forte l’impegno politico che dava un senso alla vita e per quello si combatteva. Quasi nessuno lotta oggi per qualcosa, nemmeno per sé stessi.
D. Perché non si lotta più né per sé stessi né per un ideale politico?
R. In primo luogo la scuola è venuta meno al suo ruolo per tanti, troppo motivi. Esiste poi una mediocrità intellettuale generale che pervade anche il mondo universitario: i docenti di oggi sono molto meno illuminati di quelli di trenta o quaranta anni fa. Oggi ci sono dei buoni docenti, che svolgono bene il loro lavoro, ma non ci sono più i grandi maestri. Va aggiunto che i giovani sono immersi in una società che omologa: mezzi come la televisione tendono a fargli fare ciò che fa la massa piuttosto che a far loro scoprire chi sono.Oltretutto la televisione fino ad una certa data è stata pedagogica, ma con l’avvento delle reti commerciali questa vocazione si è esaurita. Le reti commerciali sono nate da un bisogno di libertà, ma hanno finito col fare gli interessi esclusivi dei privati a cui appartenevano, analogamente a quanto è accaduto per le radio libere, che sono state un felice momento di confronto che però ha lasciato presto il posto alla rincorsa dell’audience, abbandonando il ruolo educativo che le aveva caratterizzate. La rincorsa all’audience si riduce pero` alla rincorsa dei gusti della maggioranza che, soprattutto in Italia, è fatta di persone ignoranti. Tutte le statistiche europee ci dicono che siamo all’ultimo posto per numero di laureati, all’ultimo posto in Europa come lettori di libri e giornali. Ciò è segno di un degrado del nostro paese, enorme in questo momento. Io prendo ogni mattina, da tredici anni la metropolitana ed in tredici anni ho visto solo quattro persone leggere un libro, tutti gli altri sono in genere impegnati con il proprio telefono cellulare. Si potrebbe dunque pensare che sia stata la tecnologia ad ammazzare la lettura, ma la verità è che questo è accaduto solo da noi. Se si viaggia in metropolitana a Londra o a Parigi, quasi tutti hanno in mano un libro o un giornale e non si può certo dire che non facciano uso della tecnologia. In questi paesi leggere è fondamentale. Se da un punto di vista materiale i giovani dispongono oggi di maggiori mezzi che in passato, ciò non significa che questo basti. Personalmente io compresi che per me la vita doveva risolversi scrivendo a tredici, forse quattordici anni, quando un professore di lettere, dopo un compito,volle parlarmi, per dirmi che secondo lui avevo talento per la scrittura. Capì in quell’occasione quale fosse la mia vocazione.
D. Lei ritiene dunque che vi sia la responsabilità di una generazione nei confronti di un’altra per spiegare il degrado culturale che regna sovrano in questo paese?
R. Sì, senz’altro.
D. Mi perdoni ma i giovani non sono sognatori per”natura”? Non è possibile che avendo loro sogni diversi dai nostri, siamo noi che noi non riusciamo decodificare il senso?
R. A mio avviso i giovani oggi sognano di meno.
D. Evinco da tutto ciò che mi sta dicendo che l’assenza di buoni maestri ha fatto sì che i ragazzi non abbiano potuto capire chi sono e seguire una loro personale strada.
R. E` così. Mancano i maestri , ma mancano anche i padri. Il maschio, in questo momento storico è in difficoltà…
D. Si sente messo da parte? Non si sente più necessario?
R. I maschi oggi si sentono inutili e questo sta anche alla base di fenomeni quali il femminicidio. Le donne hanno proceduto in avanti in maniera clamorosa ed ancora procederanno negli anni prossimi, gli uomini no.
D. Ma una riformulazione dei ruoli è possibile. Io ho quarantanove anni ed i maschi che ho conosciuto e frequentato, a partire da mio padre, già venivano da questa riformulazione, che mi ha consentito di non soffrire ad esempio dell’autorità del pater familias: mio padre già si poneva infatti in una condizione di maggior equilibrio nei confronti di mia madre.
R. È vero, la riformulazione dei ruoli è possibile ma pochi ne sono capaci.
D. Va detto anche che oggi nei rapporti tra uomo e donna l’idea del sacrificio non è nemmeno lontanamente postulabile ed invece nel passato i matrimoni nascevano soprattutto su compromessi in cui il sacrificio svolgeva un ruolo importante. Erich Fromm ci ha insegnato che il matrimonio fondato sull’ innamoramento, quello cioè che nell’Ottocento ci ha insegnato il Romanticismo, è destinato a fallire prima o poi.
R. Anche questo è vero. In tanti film ad esempio c’è una retorica eccessiva dell’innamorarsi follemente che, nella vita concreta, quando è necessario costruire qualcosa, non basta più. L’amore, per tornare ancora a Fromm, è un impegno serio, è un prendersi cura dell’altro, è responsabilità, ma oggi questi sono temi difficili, che non riscuotono grande successo. Anche la retorica del vivere per essere felici perde di significato quando ci si assume la responsabilità della creazione di una famiglia in cui devi rendere felice anche l’altro.
D. Tornando al discorso iniziale, secondo lei è stato possibile rubare i sogni ad una generazione intera?
R. In un certo senso sì , perché tanti elementi verificatisi in concomitanza, hanno fatto in modo che i giovani abbiano oggi poche prospettive di realizzarsi. Vede,io abito in un quartiere popolare, il Libertà, dove ci sono molti ragazzi provenienti da famiglie povere, che hanno interessi forti ma che col trascorrere del tempo si perdono perché hanno alle spalle famiglie che prima ancora che al livello economico, non li sostengono sul piano psicologico, stimolandoli a coltivare le proprie ambizioni. Sono persuaso del fatto che vi sia una marea ad esempio, di piccoli Mozart non realizzati, nati cioè con il talento necessario per diventare genii ma il cui cammino è stato poi interrotto dalle famiglie o dalla società.
D. Mentre leggevo il suo post mi è venuto in mente che la rivoluzione tecnologica alla quale stiamo assistendo ci sta portando verso un cambiamento talmente radicale che facciamo fatica a valutarne la portata effettiva. Già oggi siamo immersi in una sorta di comunicazione ad una solo dimensione, fatta di segni,quella appunto offerta dalla rete, che ci sta rendendo incapaci di decodificare linguaggi diversi.Non è possibile che i suoi studenti siano affetti da questa nuova “sindrome”? Non è possibile che quell’alienazione totale che ci aspettavamo fosse realizzata dal consumismo, in realtà si stia realizzando adesso, con l’era di internet?
R. È vero ed è questa la ragione per la quale io credo molto nell’arte, nella poesia, perché riportano l’essere umano all’idea della riflessione, della meditazione, dell’interrogarsi sulla vita interiore e la poesia può perciò essere una strada per riscoprire la complessità e la ricchezza della nostra umanità e per tornare a guardare il mondo uscendo da questa forma di autismo in cui siamo immersi , e che ci espone a rischi enormi.
D. Ora più che mai siamo zombies nelle mani di un potere a cui ha sempre fatto comodo l’ignoranza. Ci sono ragazzi che vivono nelle periferie romane e che non sono mai andati a vedere la Sistina ed il potere politico anziché invertire questa tendenza, la favorisce,sottraendo risorse alla scuola ed alla cultura.
R. Ha ragione.L’ Italia è un paese che non ha mai conosciuto una rivoluzione, come i francesi o i russi, incapace di vere contestazioni.
D. E la rivoluzione del sessantotto, nemmeno quella fu autentica, come paventava Pasolini?
R. Posso solo parlare per me e dire che noi volevamo davvero cambiare il mondo e per molti versi lo abbiamo cambiato: prima del 68 la società era fortemente autoritaria, lo era la famiglia, nella quale a decidere ogni cosa era un padre padrone.Era una società nella quale la Chiesa era onnipresente. La maggior parte delle cose migliori di cui oggi godiamo sono il frutto delle battaglie di quegli anni: l’attenzione verso la diversità,la stessa emancipazione della donna è nata in quegli anni, come ill rispetto verso la disabilità o la malattia psichiatrica. Questa è stata l’ultima rivoluzione che ha prodotto degli effetti positivi. Speriamo ve ne sia presto un’altra.
D. Credo che su questo auspicio sia doveroso concludere la nostra chiacchierata. Grazie per avermi dedicato il suo tempo.
Rosamaria Fumarola
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