Cultura
La peste, ne “I Promessi Sposi” di Manzoni
di MARIAPIA METALLO
“Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono,
d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro;
un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla…”
La peste arriva in Italia con le truppe alemanne. Inizialmente nessuno la prende sul serio. C’è chi minimizza, chi deride le preoccupazioni dei pochi che si accorgono che il problema è più serio di quel che si crede. Vengono adottate misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. Il contagio dilaga, dapprima in Lombardia e poi in tutta la penisola. C’è anche un dottor Burioni ante litteram, che cerca di mettere in guardia le istituzioni, ma invano La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, com’è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d’Italia. Inizia così il trentunesimo capitolo de I promessi sposi, forse uno dei capitoli più noti dell’intero romanzo. In queste settimane se ne è sentito parlare molto (spesso anche a sproposito). Le epidemie hanno segnato la storia, anche letteraria, del nostro Paese. Basti pensare, appunto, a I promessi sposi e al Decameron. La peste che colpì soprattutto l’Italia settentrionale nel XVII secolo e l’emergenza sanitaria che, oggi, ci troviamo ad affrontare non possono essere comparate. E non possono essere comparate per una serie di ragioni, forse banali ma che è bene ricordare: è diversa la situazione socio-economica, diverso il contesto storico-culturale, diversa la mobilità, diverse le conoscenze in ambito medico-scientifico. Insomma, stiamo parlando di due mondi lontani, per certi versi contrapposti. A ben guardare, però, una cosa – un’unica cosa – che non cambia c’è: siamo noi. Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon esercizio in queste settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione che conosciamo. Dalle parole di chi minimizza l’epidemia alla noncuranza della popolazione, dai provvedimenti che arrivano troppo tardi alla nobile missione di chi presta aiuto agli ammalati, dall’egoismo dei tanti (troppi) che fanno i propri comodi all’opera di sensibilizzazione portata avanti da istituzioni e chiesa. Insomma, le parole del Manzoni sono uno specchio: lì dentro ci siamo anche noi. La peste, come riferisce lo stesso autore, arriva in Italia probabilmente con le truppe alemanne e, in poco tempo, inizia ad espandersi a macchia d’olio. Dapprima nei territori dell’odierna Lombardia, quindi in tutta la penisola. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. Inizialmente il morbo viene sottovalutato: c’è chi pensa sia un banale male di stagione e chi deride le preoccupazioni dei pochi che prendono l’epidemia seriamente. Tra questi c’è tale Lodovico Settalla, ex professore di medicina dell’università di Pavia e poi di filosofia morale a Milano, autore di celebri opere e stimato esperto in materia. Potremmo quasi considerarlo un Roberto Burioni ante litteram. Proprio il dottor Burioni, qualche tempo fa, disse che era meglio sopravvalutare un problema che sottovalutarlo (come, di fatto, è stato fatto con il Covid-19). E lo stesso fa il professor Settalla. Il protofisico Lodovico Settalla (…) che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione. Insomma, il povero professor Settalla prova a gridare al lupo, ma nessuno l’ascolta. Non viene presa nessuna misura per limitare i contagi (veruna risoluzione, dice il Manzoni). E i contagi, infatti, aumentano. Tanto che, alla fine, il “tribunale di sanità” (organo preposto alla salute pubblica) manda dei commissari nelle zone più colpite. Oggi, quelle stesse zone, le chiameremmo “rosse” (si pensi a Codogno o a Vo’ Euganeo di qualche settimana fa). Si dice, però, che l’uomo sia portato a cercare conferme delle proprie convinzioni, anche se errate. E così fanno anche i commissari mandati dal tribunale. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, “o per ignoranza o per altro si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de’ mali non era Peste”; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace. Gli esperti inviati sul luogo del contagio si lasciano, quindi, persuadere da un barbiere “vecchio e ignorante” e si convincono che, quel morbo, non sia peste ma un generico malanno. Il tribunale, rassicurato dalle loro parole (perché era quello che voleva, essere rassicurato), si mette il cuore in pace (con buona pace della peste, aggiungerei). Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e provvedere. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. La peste continua la sua corsa e il tribunale invia, allora, altri due delegati nelle terre colpite. Troppo tardi, però. Quando arrivano il contagio è ormai dilagato e i delegati non possono far altro che raccoglierne le prove. I paesi iniziano a trincerarsi per evitare che “stranieri” infetti possano portarvi il contagio, le persone cercano riparo in campagna, i malati e i morti aumentano giorno dopo giorno. (…) E per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi (…) S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Quando il tribunale della sanità riceve le terribili notizie (sinistre nuove, con le quali anche noi, oggi, dobbiamo fare i conti), inizia finalmente a prendere provvedimenti seri e vieta a tutti gli abitanti delle “zone rosse” di entrare a Milano. Inizia così la quarantena, ai tempi di Renzo e Lucia. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, si dispose (…) a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato. Nonostante la situazione vada peggiorando di giorno in giorno, pare però che le autorità non si rendano conto dell’effettiva gravità della pestilenza. Qualche giorno più tardi infatti, noncurante del rischio a cui avrebbe esposto la popolazione, il governatore di stanza a Milano organizza pubblici festeggiamenti (in piazza e per le strade) per la nascita del principino Carlo, primogenito del re Filippo IV senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla. Ma, quello che Manzoni annota con più stupore, è il comportamento della gente che, soprattutto nei luoghi dove il contagio deve ancora giungere, pare non essere minimamente spaventata (nonostante abbia buone ragioni per esserlo). Sembra quasi di leggere il monito (ripetuto all’infinito) di Burioni: le restrizioni approvate dal governo sono fondamentali per fermare il contagio e lo sono, soprattutto, nelle zone dove il contagio non è ancora arrivato. (…) Ma ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? È un atteggiamento comune, in fondo. Finché le cose non ci toccano, non ce ne curiamo. Così, anche i Milanesi, nonostante arrivassero in città terribili notizie dai paesi vicini, pare non si preoccupassero della situazione. Egoismo italico, forse. Le cose devono arrivare a noi, altrimenti non le vediamo. Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato. Miscredenza, dice Manzoni. Menefreghismo, potremmo dir noi. La gente e le istituzioni non si rendono ancora conto della gravità dell’epidemia (epidemia che, si ricordi bene, e come dice lo stesso Manzoni, spopolò mezza Italia).