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Attualità

Nel teatro tutto è trasformazione: usiamolo per trasformare i detenuti

Il carcere non deve essere solo punizione, bensì anche recupero della persona. L’attività teatrale è la più diffusa tra quelle proposte negli istituti penitenziari, tuttavia le potenzialità del teatro non vengono mai sfruttate pienamente, sebbene potrebbero contribuire notevolmente alla costruzione del cittadino, quindi alla decostruzione dell’identità criminale. Ne parliamo questa settimana con un’intervista al regista Antonio Minelli.

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Credit foto Pixabat (Immagine di dominio pubblico)

di Alessandro Andrea Argeri

Mario Scaccia diceva: <<Se il teatro non ci fosse stato, l’avrei inventato io per sopravvivere!>>. L’attività teatrale è la più diffusa tra quelle proposte negli istituti penitenziari. Kristin Linklater aveva elaborato una teoria secondo la quale chiunque possiede dalla nascita una voce “naturale” in grado di esprimere l’infinita varietà di emozioni, di complessità di stati d’animo, di sfumature di pensiero. Ebbene le attività laboratoriali possono aiutare a conoscere sé stessi, a imparare a vivere in comunità grazie all’inserimento in un gruppo, a sviluppare il pensiero creativo anche attraverso l’incontro di persone con esperienze diverse. A teatro ogni partecipante può trovare il proprio ruolo all’interno della rappresentazione, dunque diviene parte di un insieme perché lo spettacolo è di tutti, dunque se un detenuto non collabora a risentirne è la performance dell’intero gruppo, non del singolo.

Praticare arti nelle carceri aiuta a dare uno scopo al recluso, un motivo per alzarsi la mattina, per apprendere, per formarsi. Solo così ha un senso la quotidianità in prigione. Tuttavia praticare teatro serve anche a comunicare, a promuovere il pensiero critico, a soddisfare quel bisogno di espressione intrinseco nell’animo umano. Implica una disponibilità a conoscere pazientemente sia sé stessi sia l’altro. Il teatro allora può avere una funzione fortemente educativa, perché aiuta ad esprimersi, a sviluppare nuove forme di linguaggio nonché la propria cultura. Infine, altro fondamentale insegnamento consiste nel rispetto delle regole in quanto ogni componente deve seguire le indicazioni di un regista.

Antonio Minelli ha “fatto teatro” e presentato spettacoli nelle carceri, mentre ha tenuto laboratori nelle comunità per tossicodipendenti, un’esperienza trentennale votata a un teatro reale, quotidiano, utile.

  • Cosa ha provato la prima volta che è entrato in carcere e ha visto dei detenuti?

<<Sono stato sia presso il carcere minorile di Casal del Marmo di Roma, dove ho avuto a che fare con dei minorenni, sia al carcere di massima sicurezza di Milano Opera, la più grande delle 208 carceri italiane, dove c’erano detenuti adulti, quindi un’utenza matura. La prima impressione che ho avuto quando ho avuto a che fare con i ragazzi è stata di stupore e di assenza di distinguo, infatti dopo la prima mezz’ora ero più stupito del fatto che non avessi nessun tipo di percezione straniante, nel senso che non c’era una situazione in cui mi sembrava di essere in un carcere con dei detenuti, insomma non ero affatto stupito. Ho lavorato bene con i ragazzi, tanto che al termine dell’esperienza il direttore di Casal del Marmo mi ha inviato una lettera che ancora conservo con molto piacere. Il nostro è stato un teatro coinvolgente, che prevedeva il dialogo con gli spettatori e quindi a un certo punto c’è stata una fusione tra noi e loro, tanto che in quel momento avrei sfidato chiunque a entrare in quello spazio e a distinguere chi fossero gli ospiti provenienti dall’esterno e chi i carcerati, e sarebbe stato impossibile se non fosse stato per il trucco e per i costumi. Anche dopo lo spettacolo ci siamo fermati per parecchio tempo per parlare insieme. È stata una bella giornata e un momento d’incontro.>>

  • Come si è rapportato con i ragazzi?

<<La mia compagnia teatrale fa sempre spettacoli nei quali in qualche modo viene coinvolto il pubblico, oppure delle volte molte battute sono indirizzate agli spettatori e quindi ci si aspetta una reazione da parte loro che ci fa poi continuare lo spettacolo. La reazione dei ragazzi era di divertimento e quando poi c’erano le battute indirizzate a loro le risposte conseguenti erano assolutamente in linea con quelle di qualsiasi altro tipo di spettatore, era un pubblico normale. Poi è chiaro che all’interno c’erano ragazzi che erano stati giudicati per crimini anche piuttosto seri, ma in quel contesto non si rilevava nulla.>>

  • Nelle carceri tutto passa per l’autorità carceraria. Ad esempio immagino che non si possa proporre di interpretare l’Amleto, dove alla fine sul palco avviene una strage e la scena diventa un lago di sangue. Allora quali opere ha proposto per le rappresentazioni?

<<Onestamente non ho rilevato una censura o un controllo troppo serrato. Il controllo c’è stato, come doveva esserci, ma è stato tranquillo. Un’opera era sull’apocalisse di Giovanni, una rappresentazione piuttosto intensa realizzata combinando teatro, danza e musica d’impatto per ottenere un lavoro molto evocativo. L’altro invece era un lavoro sull’autodistruzione del pianeta per colpa di un re folle. A un certo punto il re dice che al fondo sala è sul punto di crearsi una porta spazio-temporale, per cui chi sarebbe uscito da quella porta non sarebbe più rientrato nella propria casa di tutti i giorni ma si sarebbe ritrovato in un universo parallelo, il che tra i detenuti ha ovviamente generato un’ilarità abbastanza generale. Gli attori erano costretti a non potersi muovere da quello spazio tempo sempre per un discorso di fisica quantistica, e allora qualcuno ha detto: “Vabbè se te ne vai tu non c’è problema però, ci lasci le due principesse”, riferito a quelle che erano nello spettacolo. Quando a un certo punto il re ha detto che si sarebbe creato uno portale spazio-temporale, “poi uscirete di là e vi ritroverete in un universo parallelo”, uno ha risposto: “c’ho ancora vent’anni da fare”, un altro invece ha chiesto quanto dovesse rimanere in quell’universo. Dovevamo sforzarci di non perdere il ruolo perché mentre nello spettacolo classico il pubblico reagisce in maniera più composta e attenta, come noi ci aspettiamo, i detenuti invece con la loro partecipazione ci portavano a uscire dallo standard, e noi entravamo in difficoltà perché non potevamo in quel momento condividere con loro la risata perché c’era il ruolo dell’attore. Abbiamo dovuto lottare parecchio per rimanere nel ruolo perché i detenuti erano molto divertiti e disponibili. Ovviamente ai bordi della platea c’erano comunque guardie armate.>>

  • Quindi se non ci fossero state le guardie armate sarebbe stato diverso?

<<Sì, sarebbe stato diverso. A Milano c’è proprio un vero e proprio teatro quindi tu sei su un palcoscenico, c’è una platea fatta a platea e un palcoscenico un fatto palcoscenico con un sipario. Sembra tutto normale e il pubblico aveva la particolarità di essere un po’ diviso per settori, infatti c’erano degli spazi fra i quali c’erano dei gruppi, poi c’erano delle file vuote e poi c’erano degli altri gruppi quindi c’era questa divisione fisica e poi la presenza delle guardie, che ci facevano capire continuamente che non eravamo in uno spazio consueto e che comunque erano lì anche per difenderci.>>

  • Quando hanno dovuto recitare, i detenuti si sono messi facilmente in gioco?

<<Il teatro europeo prevede che ci sia un copione da imparare a memoria per poter interpretare i personaggi. Quando invece si deve generare un teatro l’attore deve fare un percorso introspettivo, quindi i detenuti che devono recitare si ritrovano difronte ai drammi che hanno inevitabilmente vissuto. La parte più difficile è aiutarli a esternarsi. Ricordo un’occasione in cui un detenuto si è aperto così tanto da raccontare proprio tutto di sé e siccome erano cose piuttosto delicate io ero anche molto preso umanamente dal suo vissuto: mi sono sentito raccontare e spiegare nei particolari su come siano state poi compiute alcune di queste attività piuttosto pesanti e a me perlomeno ha fatto un certo effetto. Ancora, un altro ragazzo aveva cominciato e svolto un lavoro perfetto, e io dicevo: “caspita è bravissimo, è riuscito a tirar fuori delle cose impressionanti in una maniera che pochi attori riescono a fare”. Avevo difronte un personaggio disastrato che aveva attraversato momenti veramente drammatici, di una tristezza incredibile, tanto che io arrivai a chiedermi se forse anche io non avrei compiuto le stesse azioni se mi fossi trovato nella sua stessa situazione. Il tutto solo per scoprire verso la fine dell’attività che stava recitando e che tutta quell’immagine che io mi ero fatta di lui era l’immagine di un personaggio inventato, non di sé stesso…>>

  • Cioè stava recitando mentre recitava?

<<Esattamente. Stava mentendo. Mentre costruivamo il personaggio lui tirava fuori degli spunti che diceva essere personali e tratti dal suo vissuto, e io ovviamente lo incentivavo ad usare quelle emozioni che gli uscivano da dentro. Era fenomenale perché tirava fuori delle cose di sé stesso che poi nel personaggio funzionavano alla grande e alla fine mi dice: “Senti ma tu hai creduto proprio a tutto quello che ho detto?”.>>

  • Incredibile! E la sua reazione qual è stata?

<<Gli ho stretto la mano e l’ho abbracciato perché era stato grandioso! Quando ti trovi davanti uno così bravo da creare un personaggio fittizio che poi viene utilizzato per creare un ulteriore personaggio, insomma quando ti ritrovi davanti a una matriosca psicologica così ti trovi di fronte a un attore nato!>>

  • Perché lei ha scelto di praticare teatro in carcere?

<<Ho sempre pensato che ogni forma d’arte debba essere inserita nel contesto del quotidiano e non debba essere chiusa in uno spazio predisposto e precostituito. La pensavano così già i futuristi e Carmelo Bene. Insomma c’è stato tutto un percorso di riflessione artistica in cui si è sottolineato il bisogno di tornare a fare arte in luoghi – “non luoghi” quotidiani. Ogni cosa, dalla camminata per strada alla lezione a scuola dovrebbe portare un contatto quotidiano con l’arte, che sia teatro, pittura, scultura o qualsiasi altra forma d’arte. Ora le forme artistiche vengono protette e messe nei musei, nel ‘600 invece si avvertiva direttamente il contatto con l’arte camminando per strada. Oggi si è perso il contatto quotidiano con l’arte, se vuoi l’arte devi andare di tua spontanea volontà all’interno di uno spazio dove vengono tenuti oggetti artistici. Ebbene nel ‘900 i futuristi dicevano che bisognasse andare per le strade a fare arte lì dove c’è la gente, il che era quello che si faceva che si è fatto per secoli. Per questo io fin dall’inizio, fin da quando ho iniziato a Genova, ho fatto spettacoli ovunque, nei boschi, nelle grotte di Castellana, sulle navi, nelle piazze, ho fatto spettacoli in spazi non convenzionali, quindi un carcere era un altro spazio non convenzionale. Ricordo nel ’91 quando “No Limits”, una rivista sugli sport estremi, dedicò a me e alla mia compagnia tre o quattro pagine considerandoci una compagnia teatrale “estrema” proprio perché facevamo cose inusuali come fare spettacoli in luoghi in cui normalmente non c’era spettacolo.>>

  • Come si riscopre questa quotidianità?

<<Camminando per strada a un certo punto vedi il tuo posto di sempre letteralmente trasformato in un qualcosa che non ti aspetti e quindi vedi il tuo spazio quotidiano in un altro modo, sotto un altro punto di vista. Non siamo più nell’’800, il teatro non è più l’attore sul palco che parla con la voce impostata. Il teatro è diventato altro, ma in Italia per mancanza di aggiornamento siamo rimasti al 1800. All’estero ho fatto spettacoli un po’ ovunque, dalla Francia alla Spagna, dall’Argentina a Praga, da Berlino a Rio de Janeiro. Ho visto modi di fare teatro che ancora oggi nonostante siano passati vent’anni o trent’anni in Italia sarebbero improponibili.>>

  • Tipo?

<<Tipo una versione del Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet, un drammaturgo “criminale” fra i più discussi del Novecento, che scrive dal carcere sul carcere e con storie di violenza e omosessualità anche in maniera molto aggressiva. In Italia quasi mai ci si azzarderebbe a rappresentare un autore simile perché per mettere in scena un’opera di Genet, anche se stiamo parlando di un gigante della drammaturgia teatrale, in Italia non si fa perché per farlo lo devi negare, lo devi censurare, non puoi fare quello che lui scrive o descrive. In Brasile ho visto una versione integrale e perfetta, così come lui l’aveva scritta, il che significa vedere sodomizzazioni in scena, vedere delle scene fortemente violenti e di sesso che ovviamente in Italia non si possono fare. Alcune scelte di censura sono paradossali! Ricordo quando dovevo rappresentare la Creazione con Battiato che mi diede una serie di brani da utilizzare. Quindi portavamo in giro per l’Italia questo lavoro in cui la prima era per l’appunto la Creazione, quindi gli attori dovevano essere nudi per verosimiglianza, voglio dire, era la Creazione! Invece tante volte ci hanno chiesto di mettere i mutandoni agli attori.>>

  • Ma perché siamo così indietro?

<<Perché in Italia è considerato teatro d’avanguardia quello degli anni ’60. Ma era sessant’anni fa. Il teatro, e questo lo dicono gli storici del teatro, non è la riproposizione di uno stile. Noi abbiamo imparato Grotowski non per imitarlo ma per superarlo, come non ha importanza. L’importante è comunicare qualcosa, non importa il mezzo. Invece ora l’arte è diventata il mezzo, quando dovrebbe essere il fine. Il teatro non deve essere fatto solo in teatro. Carmelo bene lo diceva chiaramente: “non esiste ‘andare al teatro’ perché il teatro è ovunque”. Il teatro è ovunque ci sia un’azione e degli spettatori.>>

  • Ci sono particolari strumenti del teatro che aiutano la trasformazione per quanto riguarda il lavoro con i detenuti?

<<No, sono gli stessi che uso con tutti gli altri. Io non credo che esista la musicoterapia, il teatro terapia o qualunque altro tipo di terapia che in qualche modo possa essere sviluppata appositamente per chi ha questo, chi ha quello… è un concetto completamente fuori da ogni aspetto artistico ma anche pedagogico semplicemente perché non sono applicabili. Ad esempio se io portassi un disabile a fare ippoterapia sarebbe perché quando lui sale sul cavallo prende coscienza di un altro essere col quale interagisce. Questo lo trovo molto funzionale ma accade per chiunque. Ovviamente il teatro può essere, anzi è una terapia, ma questo vale per chiunque, motivo per cui non ci sono non ci sono particolari metodi. Ci sono artisti o registi o scuole di teatro che fanno un percorso diverso a seconda degli scenari e del quartiere dove operano. Ma non c’è un unicum con cui operare, il teatro-terapia non serve agli utenti di teatro ma ai terapeuti.>>

  • Nell’istituto penitenziario tutto passa dall’autorità del direttore. E in carcere le direttive sono rigide. Ci sono stati vincoli, ovvero delle difficoltà organizzative?

<<Ci sono procedure di routine, ingressi, permessi, fare tutta la trafila per entrare, quando sei dentro senti sempre le porte che si aprono e si chiudono dietro di te, e quando senti i rumori di queste porte che si chiudono credo che le affronti con una certa serenità solo perché sai che fra un po’ uscirai, eppure resta comunque abbastanza suggestivo. Questa cosa però non l’ho avuta quando ho tenuto un laboratorio in uno dei pochi manicomi ancora presenti in Italia, dove invece avevo difficoltà a uscire perché mi trovavo a mio agio in quella tranquillità.>>

  • In che senso? Qual è la differenza tra il manicomio e il carcere?

<<Se parliamo in linea di massima e non parliamo di casi particolarmente problematici, quindi generalizzando il disagio mentale, nel manicomio le persone sono così come le vedi, sai che non ti mentiranno e non si nasconderanno. Sono più sinceri.>>

  • Tante volte si finisce in carcere perché si vuole una vita facile. Invece dietro uno spettacolo c’è un gran lavoro sia fisico sia mentale. Il teatro può essere utile per insegnare la fatica?

<<Dipende sempre se il teatro è fatto bene. Se è fatto bene certo che insegna la fatica. De Simone, autore napoletano “La gatta Cenerentola”, diceva che per “fare teatro” bene bisognasse mettersi in clausura, entrare in una sorta di monastero dove il tuo obiettivo è solo quello e devi lavorare ventiquattro ore su ventiquattro. Quindi al teatro bisogna dedicare totale dedizione se vuoi farlo bene e non devi lasciarti sfuggire nulla, neanche il movimento del barista che fa il caffè perché quel giramento del polso quando svita l’agitatore del caffè, il ritmo che usa, il come ti mette il cucchiaino, tutte quelle cose le devi imparare continuamente. Devi avere passione. Ricordo soprattutto da ragazzo che non avevo voglia di lavorare, ma quando entravo in teatro anche per costruire scenografie potevo entrare alle cinque del pomeriggio e uscire alle cinque del mattino senza accorgermene. Quindi fare teatro con i carcerati potrebbe aiutare a insegnare che bisogna lavorare per ottenere dei risultati e che non esistono scorciatoie.>>

  • Si possono organizzare gruppi misti?

<<Può aiutare perché il teatro è comunque per chiunque e mette un po’ a nudo l’io di chi lo pratica, perché chi deve entrare nel personaggio deve pescare dentro sé stesso le emozioni che vanno poi a muovere il personaggio, a farlo parlare, esattamente come funzionano le emozioni di chiunque.>>

  • È utile impostare l’attività teatrale secondo un’esperienza autobiografica?

<<Sì, e questo mostrerebbe la forza del teatro a trecentosessantacinque gradi, cioè non solo con i detenuti o i tossicodipendenti ma con tutti i praticanti e gli amatori. Il teatro teoricamente se fatto in un certo modo porta alla conoscenza interiore. Prima abbiamo citato Amleto. A che serve interpretare Amleto se non si comprendono le affinità tra l’interprete e il personaggio? Tutto il teatro prende forma da quelle che sono le nostre pulsioni, se tu non le riconosci in te stesso come puoi mai rappresentarle? Per quanto puoi imparare a memoria, avere la tecnica, la voce, tutto quello che ti pare, devi comunque essere in grado di gestire le tue emozioni per poterle poi tirar fuori e questo significa che in un certo punto il pubblico deve accettarti per quello che sei, deve accettarti perché tu mettendo fuori le emozioni in pubblico esporti cose che noi non conosciamo, e nel caso dei detenuti, soprattutto se hanno avuto un passato particolarmente pesante a cui hanno risposto con la chiusura, il teatro invece li obbliga ad aprirsi e a venire a patti con sé stessi.>>

  • E impersonare una persona reclusa, quindi un’esperienza parallela a quella reale?

<<Interpretare una persona reclusa per una persona già reclusa è uno spettacolo teatrale, che ha fatto il secondo ragazzo che aveva costruito una seconda identità. Vale sicuramente un po’ per tutti impersonare quello che non siamo. Sicuramente per il detenuto si tratta di un’esperienza che mette veramente a dura prova il tuo rapporto con sé stesso perché comunque dover simulare e riuscire a far credere al pubblico quali siano le emozioni o qual è lo stato d’animo di una persona reclusa è sicuramente più difficile che fare semplicemente l’amante del personaggio principale di una commedia.>>

  • Quali sono stati i benefici sui detenuti che hanno recitato e su quelli che hanno solo osservato?

<<Sicuramente quello che ha scritto il direttore del Casal del Marmo di Roma, ovvero che i ragazzi per qualche ora si sono sentiti in un ambiente diverso, “normale” diremmo noi, anche se è una brutta parola, perché è stata data loro la possibilità di vivere una giornata come in qualsiasi ragazzo, non dico dimenticando la sua situazione ma ponendola in secondo piano, perché il quel momento era più importante stare insieme.>>

  • Dario Fò era pioniere di un teatro con forti connotazioni etico-politiche per trasformare il disimpegno etico delle comunità in senso civico sui valori dell’essere quanto invece sull’avere. È possibile praticare ancora un teatro così?

<<Ormai l’impegno civile in teatro non si fa più. Lo fai in maniera amatoriale o prescindendo dal teatro in quanto attivista. Molti comunque lo fanno obbligatoriamente all’interno di una cornice consumista. Prima di fare il teatro politico o sociale l’impegno civile era andare nei luoghi dove c’era bisogno, come facevano non soltanto i grandi autori ma anche molti altri che andavano nelle periferie degradate e nei quartieri a rischio. Sarebbe utile andare in quelle piazze dove non c’è più nessuno a fare uno spettacolo vero, ma purtroppo questo modo di fare teatro in Italia lo reputo ormai impossibile e impraticabile, mentre negli anni 70 e 80 era assolutamente normale. Mi ricordo a Genova uno spettacolo di Aldo Trionfo e Luzzati in un manicomio, oppure Eugenio Bennato in un quartiere molto malfamato della città di Genova.>>

  • Quali sono gli autori più indicati per i detenuti?

<<Dubito che farebbero fare Jean Janet (ride ndr.) Un po’ tutto può essere utile, però io farei fare Il Signore delle Mosche, di Golding, oppure Pirandello con quel suo tentativo di fare il teatro realistico, tentativo mai riuscito ma che può essere utile se parliamo di “Sei Personaggi in Cerca di Autore” per tirare fuori l’identità del personaggio. Io però quando faccio progetti nelle carceri non vado mai con un copione, faccio degli incontri con i dieci, venti o trenta che hanno deciso di fare teatro e da questi incontri viene fuori l’argomento da trattare e la modalità con cui trattarlo. Il teatro non significa necessariamente recitare un copione. Il teatro può essere anche un semplice gesto o movimento, insomma qualunque cosa. Io faccio prima degli esercizi con i detenuti con cui devo lavorare per scoprire le loro peculiarità e il loro vissuto, e su questo poi costruisco uno spettacolo. In questo modo viene una costruzione su misura perché il regista magari pensa a mettere in scena l’opera, ma è l’attore che gli dà l’anima. L’attore è un artista che genera il personaggio, non un esecutore passivo.>>

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).