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Attualità

I cosplayer dei Pink Floyd

Politici sempre più simili ad influencer, demagoghi col sogno della Prima Repubblica, parole abolite ma concetti non ancora cancellati. Di gente pronta a tutto pur di avere i suoi cinque minuti di popolarità ce n’era in grande quantità già prima dell’avvento di internet. I social hanno ovviamente ingigantito il fenomeno, così siamo giunti alla fiera del patetismo. “Essere o non essere: è questa la domanda”, ormai anche il pallido principe di Danimarca è diventato “mainstream”, avrebbe infatti dovuto pronunciare “come dico io o non sei inclusivo: non c’è alternativa”.

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Vignetta realizzata da Pietro Scuderi.

di Alessandro Andrea Argeri

Ipocrisia, chiasso confuso col rumore, proteste monetizzabili. È ormai noto come i nostri discorsi siano regolati dal “politicamente corretto”, eppure nel 2015 “eravamo tutti Charlie Hebdo”. Ora la maggior parte degli utenti della rete, dunque dei cittadini, è indottrinata dal proselitismo dei radical chic come nemmeno i “prols” di “1984” con la propaganda del “Partito”. Tuttavia i rivoluzionari anarchici, quelli incontrabili solo sui social, non sono affatto né attivisti né amanti dei “diritti”, bensì “cosplayer”, venuti pure male, dei Pink Floyd.

I soldatini dell’inclusività sposano cause ideologiche in base alla vacuità delle stesse: più queste sono astratte, meglio bisogna combattere contro un avversario mai ben definito. Ecco allora come la foto di una ragazza in lacrime viene accusata di sostenere il patriarcato perché “la donna non può mostrarsi debole”, un figlio viene additato per “omofobia” se chiama la propria madre “mamma”, un omosessuale invece tradisce la causa, o meglio, si schiera “con il fascismo dei maschi cis etero bianchi occidentali e”, ovviamente, “con il patriarcato”, se dopo tanto sentir parlare di diritti a un certo punto comincia a chiedere quando intendono concederglieli.

I sobillatori delle rivolte ideologiche sono invece più astuti degli adepti, poiché scendono in campo apertamente solo quando conviene loro, altrimenti tastano il terreno per essere sicuri di non rimetterci la faccia in caso di capitolazione delle truppe, dopotutto, la massa è cambia facilmente direzione. Ecco dunque come ci ritroviamo ad assistere con sempre più frequenza a rivoluzioni virtuali più simili a scadenti commedie. “I capi” sono difficili da individuare, in quanto si muovono nell’ombra di un nuovo mondo senza regole, nonché non ancora pienamente conosciuto, ovvero la rete.

Il sistema di indottrinamento è lo stesso della diffusione di messaggi subliminali in una qualsiasi propaganda politica: vengono pubblicati dei contenuti, nel 2022 perlopiù meme satirici o video rappresentanti un caso di indicibile violenza perfetto per suscitare l’indignazione popolare. Questi vengono poi condivisi, catturano “mi piace”, acquistano importanza, si diffondono a un pubblico molto ampio, dunque il messaggio viene assorbito da un vasto bacino d’utenza. Poi il ciclo ricomincia, finché non ci si convince della giustezza di quell’opinione siccome condivisa molto di frequente. Se c’è un’obiezione, immediatamente compare un profilo falso ad inneggiare contro “la censura”, “la politica”, o “i vecchi schemi”, a seconda del pubblico a cui ci si vuole rivolgere. La propaganda ha quindi effetto.

Oggi possiamo rivendicare di essere noi stessi. Lottiamo ferocemente per difendere le nostre identità, eppure ci siamo estraniati dalla realtà. Il mondo social non è quello vero. Il distacco dei due piani ha portato ad identificare gli utenti/cittadini in due categorie: da una parte gli “adepti”, dall’altra i “democratici”. Come distinguere le persone reali da certi “tristi, loschi figuri”? Ebbene, sono ben definibili.

Gli “adepti” tendono ad asserire, sono infatti sempre d’accordo con il loro capo carismatico, pertanto rispettano le gerarchie all’interno dello loro “setta”. “Il leader è un profeta, non si mette mai in discussione”. Si muovono in gruppo, forti del numero sono inclini all’offesa, mettono molti “mi piace”, ma solo dove ce ne sono già tanti. Non cambiano opinione anche se non ne hanno una propria. Non provano vergogna delle loro azioni poiché “legittimate dall’alto”, non traggono piacere nella conversazione, ma solo nella discussione.
I “democratici” invece pensano, argomentano, talora sono critici persino nei confronti delle persone da loro stessi più stimate, pertanto, poiché non si identificano con alcuna setta, non hanno particolare soggezione verso qualsivoglia gerarchia. Si muovono da soli, non offendono, mettono pochi “mi piace”, cambiano opinione a seconda delle circostanze, ma sono una minoranza in quanto abitano nel mondo esterno, quello vecchio senza schermi.

I social sono diventati la nuova piazza, vanno dunque regolamentati. Prendere questo discorso alla leggera significa sottovalutare i pericoli della rete, allo stesso modo di come nei primi anni duemila si sottovalutava il cyberbullismo. Esattamente con le stesse trappole descritte appena sopra, nel 2014 negli Stati Uniti venne eletto Trump, Orban mantiene il potere, anche grazie a uno stretto controllo sui sistemi di comunicazione, in Italia abbiamo votato stimatori di dittatori sanguinari finanziati dagli stessi. In gioco c’è la democrazia, un vero diritto, non un asterisco.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).