Attualità
Ritratto di liquide povertà
È da circa trent’anni che larghe fette della piccola borghesia barese, fatta di artigiani e commercianti, sono state retrocesse nell’ampia fascia del proletariato urbano, che nessuno cita più negli articoli di giornale, in tv e nei libri, ma che esiste ed è più sofferente che mai.
di Rosamaria Fumarola
Tutte le volte che entro nel supermercato che frequento abitualmente mi assale la consapevolezza di avere rapporti più stretti con il pavimento nero e grigio, con i carrelli, con i corridoi illuminati dalle luci bianche dei neon, con gli scaffali che con tutta la gente che entra, scivola veloce, sceglie, paga ed esce.
Mi si dirà: “è perché gli acquirenti non sono quasi mai gli stessi, invece le cose sì e ci appaiono più stabili e sicure nella loro fissità”.
In realtà, da quando faccio acquisti in questo supermercato, anche i dipendenti sono sempre gli stessi, ad esempio la cassiera, che era appena maggiorenne quando fu assunta, con gli occhi verdi e i capelli rossi e la pelle di un colore così pallido da apparire sgomento nel suo sguardo verso il mondo.
La stessa giovanissima cassiera, con la scritta “dovere” pesante come il piombo dietro le pupille, che però trovava il sostegno nel sorriso delle giovani labbra.
Il tempo ha cancellato quell’ingenua abnegazione ed ha lasciato il posto ad una rigida e nervosa sicurezza. Lo stesso tempo non ha avvicinato davvero le mie orecchie al cuore e alle parole di questa donna che, come me, è concentrata sulla sua corsa e le sue palpebre non lasciano polvere a posarsi su grigi pavimenti ma la raccolgono e ne fanno una palla da lanciare oltre l’ostacolo.
Questa donna non è un fiore spontaneo, non si accorge degli altri, non scambia nulla con loro. Anche io passo e non lascio niente. Ho faticato tutta una vita per riuscirci ed in fondo ancora adesso non posso dirmi abilissima nell’arte del distacco, della fuga, della velocità, ma in fondo dissimulo in maniera sufficiente per non apparire diversa, per non avere problemi.
Così anche oggi mi sono recata al supermercato per la celebrazione del rito degli acquisti e mi accingevo a ritornare a casa con le mie buste piene, quando mi sono accorta che proprio all’entrata, un signore di mia conoscenza, insieme al suo cane, si divideva dalla moglie e raggiungeva i primi scaffali per fare la spesa. Gli ho sorriso e ci siamo salutati. Si tratta di un uomo sulla sessantina. Sua moglie e sua figlia gestiscono un negozio che si occupa della vendita esclusiva di prodotti alimentari surgelati ed è lì che qualche volta l’ho incontrato, sempre all’uscita, sempre impegnato col suo cane. Non mi è mai apparso un uomo benestante, anzi il viso scavato e gli abiti di fattura ordinaria mi hanno fatto sempre pensare ad una persona che non ha raggiunto la sua età per buttarsi alle spalle le insicurezze di una vita, quanto piuttosto un uomo stanco dei difficili equilibri in cui sembra ancora essere impegnato. Non è cosa rara in questa città.
È da circa trent’anni che larghe fette della piccola borghesia barese, fatta di artigiani e commercianti, sono state retrocesse nell’ampia fascia del proletariato urbano, che nessuno cita più negli articoli di giornale, in tv e nei libri, ma che esiste ed è più sofferente che mai.
A parte questo e qualche notizia relativa alla salute del suo cane, non conosco quali siano i pensieri di quest’uomo. So che stasera ha portato la sua povertà al supermercato, per scambiarla con qualcosa, ma nessuno compra la povertà e nessuno ha comprato la sua.
Così ha raggiunto l’area fuori dal supermercato, dove io sostavo sistemando le buste della spesa sul manubrio della bici e gli davo le spalle, senza scambiare le solite chiacchiere sulla salute del suo cane. Ha poi aspettato che sua moglie lo raggiungesse e se ne sono ritornati a casa, percorrendo il marciapiede della strada battuta dal sole calante della primavera barese.
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