Mettiti in comunicazione con noi

Non categorizzato

Cile a un bivio: tra la speranza comunista di Jeannette Jara e il ritorno del pinochetismo con José Antonio Kast

Quello che il popolo cileno deciderà il 14 dicembre non resterà confinato oltre le Ande. Sarà un messaggio per tutta l’America Latina – e anche per l’Europa – su quanto lontano la paura può spingere le società, e su quanto ancora la speranza è capace di resistere.

Pubblicato

su

annette Jara e José Antônio Kast. Fotos: Rodrigo Arangua e Marvin Recinos/AFP

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera

Domenica 16 novembre, il Cile è tornato a essere un laboratorio politico osservato dal resto del mondo. In un Paese che poche decine di anni fa è stato la vetrina del neoliberismo di Pinochet e dei suoi Chicago Boys, le elezioni presidenziali hanno portato al secondo turno due progetti opposti: Jeannette Jara, ex ministra del Lavoro, militante storica del Partito Comunista, alla guida di una coalizione di centro-sinistra; e José Antonio Kast, leader dell’estrema destra pinochetista, alleato ideologico di Trump e Bolsonaro.

Con il 26,8% dei voti, Jara è arrivata prima. Kast l’ha seguita da vicino, con circa il 24%. Ma l’aritmetica del primo turno dice qualcosa di scomodo: messi insieme, i candidati di destra e di estrema destra superano comodamente la metà dell’elettorato – ed è per questo che, pur essendo arrivato secondo, Kast entra favorito nella sfida del 14 dicembre.

Dall’“estallido social” alla paura come arma politica

Sei anni dopo l’estallido social del 2019, quando milioni di persone sono scese in piazza contro il modello neoliberista, il Paese sembra vivere il movimento opposto: la frustrazione per la sconfitta del nuovo testo costituzionale, l’inflazione, la sensazione di insicurezza e la questione migratoria hanno aperto spazio a un discorso di “ordine” che l’estrema destra ha saputo sfruttare con grande efficacia.

Il centro del dibattito ha smesso di essere la democratizzazione dell’economia e della politica ed è diventato la paura: paura della criminalità organizzata, paura dell’“altro” straniero, paura di perdere quel poco che si ha. La campagna è stata dominata da due temi – sicurezza e migrazione, con un’enfasi particolare sulla migrazione venezuelana – presentati dalla destra come se fossero quasi sinonimi.

È su questo terreno avvelenato che la sinistra cilena cerca di affermare un programma sociale, ed è in questo scenario che va letto il secondo turno.

Chi è Jeannette Jara e cosa rappresenta una sua vittoria

Jeannette Jara non è un’outsider. È un quadro organico del Partito Comunista, è stata ministra del Lavoro nel governo Boric e guida la coalizione di governo Unidad por Chile. È diventata candidata dopo aver vinto con ampio margine le primarie della sinistra a giugno, conquistando più del 60% dei voti tra gli elettori della base progressista.

Il suo programma combina tre assi principali:

  • Ricostruire lo Stato sociale: aumento del salario minimo, rafforzamento del sistema pensionistico pubblico, riduzione delle tariffe dei servizi essenziali e politiche abitative popolari.
  • Difendere i diritti del lavoro e la contrattazione collettiva, rilanciando l’agenda di riduzione dell’orario di lavoro e di rafforzamento dei sindacati che lei stessa ha promosso da ministra.
  • Affrontare il tema della sicurezza senza militarizzare la vita quotidiana, combinando riforma della polizia, controllo delle armi e rafforzamento delle politiche sociali nelle periferie.

Nel corso della campagna, però, Jara ha moderato il discorso su alcuni punti sensibili – ha fatto un passo indietro su proposte come la nazionalizzazione del rame e del litio e la legalizzazione dell’aborto, per cercare di parlare anche a quell’elettorato di centro spaventato dall’etichetta di “comunista”.

Un’eventuale vittoria di Jara significherebbe, per il Cile:

  • Il mantenimento del Paese nel campo dei governi progressisti sudamericani, al fianco di Lula in Brasile, di Gustavo Petro in Colombia e della nuova presidenta del Messico, Claudia Sheinbaum, che rappresenta a sua volta una svolta storica e simbolica nella regione.
  • La possibilità di riaprire, con maggiore realismo, l’agenda di superamento del modello pinochetista, ancora dominante nei sistemi pensionistico, sanitario ed educativo.
  • La continuità di una politica estera che dialoga con i BRICS e con il Sud globale, senza rompere con Stati Uniti e Unione Europea, ma rifiutando l’allineamento automatico all’asse NATO–Washington in tempi di guerra e di competizione per risorse strategiche come rame e litio.

Non sarebbe un governo rivoluzionario in pochi mesi, ma un governo di resistenza e contenimento dei danni, che cercherebbe di riconquistare terreno sociale in un contesto di Congresso frammentato e di destra rafforzata.

Chi è José Antonio Kast e cosa c’è in gioco nella sua vittoria

Dall’altra parte troviamo José Antonio Kast, avvocato, cattolico ultraconservatore, figlio di un ex ufficiale dell’esercito nazista rifugiatosi in Cile, leader del Partido Republicano – la forma più organizzata del nuovo pinochetismo. È il suo terzo tentativo di arrivare alla presidenza, dopo essere stato sconfitto da Boric nel 2021.

Kast si presenta come il candidato dell’“ordine” e della “pace”, ma la sua agenda concreta è un’altra:

  • Piano “Scudo di frontiera”: muri, fossati e militarizzazione della frontiera con Perù e Bolivia, combinati con deportazioni di massa di migranti, in particolare venezuelani.
  • Stato minimo e shock neoliberale: riduzione delle tasse per le grandi e medie imprese, tagli alla spesa sociale, deregolamentazione ambientale per settori come il salmone e l’estrazione mineraria.
  • Agenda morale reazionaria: difesa storica del divieto assoluto di aborto, opposizione ai diritti LGBTQIA+ e apologia della “famiglia tradizionale cristiana” come base della nazione.

La sua campagna si ispira apertamente a Donald Trump, Jair Bolsonaro e Nayib Bukele, utilizzando la combinazione ben nota di paura, fake news, moralismo religioso e promesse di “pugno duro” contro la criminalità.

Se Kast dovesse vincere, il Cile tenderebbe a:

  • Rafforzare l’asse dell’estrema destra continentale, al fianco di Milei in Argentina e di Bukele in El Salvador, offrendo a Trump (negli Stati Uniti) un nuovo alleato disciplinato nell’emisfero.
  • Irrigidire la propria politica estera, avvicinandosi ulteriormente a Israele e alla NATO e allineandosi alla strategia statunitense di contenimento della presenza cinese in America del Sud – in particolare nella disputa per il litio andino.
  • Approfondire il modello di Stato minimo e mercato massimo che ha trasformato il Cile in un simbolo del neoliberismo globale dagli anni ’70, ora rivestito di un discorso di crociata morale e di “guerra alle gang”.

Si tratta, in sintesi, di un progetto di restaurazione autoritaria: non necessariamente di un colpo di Stato classico, ma di uno smantellamento accelerato dei diritti sociali, civili e del lavoro, con una dura repressione dei movimenti popolari, dei popoli indigeni e della gioventù urbana.

Perché queste elezioni contano oltre i confini cileni

Per chi osserva da fuori, è facile leggere questa sfida come “l’ennesima polarizzazione”. Ma in realtà in gioco c’è qualcosa di molto più strutturale.

  1. Il laboratorio neoliberale torna sulla scena
    Il Cile è stato per decenni l’“alunno modello” del FMI e della Scuola di Chicago. Se il Paese che ha vissuto l’estallido social e ha aperto un processo costituente finisce nelle mani di un pinochetista riciclato, il messaggio al mondo sarà chiaro: il laboratorio è riaperto, stavolta in versione ultraconservatrice e securitaria.
  2. Il banco di prova della sinistra istituzionale
    Un governo Jara mostrerebbe se è ancora possibile, oggi, governare da sinistra in un sistema politico saturato da decenni di neoliberismo, con mezzi di comunicazione concentrati, potere finanziario e lawfare che agiscono in blocco.
  3. La correlazione di forze nel Sud globale
    Nel pieno del conflitto geopolitico tra il blocco Stati Uniti–NATO e un ordine più multipolare spinto da Cina, Russia e BRICS, ogni elezione in America Latina pesa sulla bilancia. Un Cile guidato da Jara è un partner critico, disposto a negoziare. Un Cile guidato da Kast è un voto automatico a Washington in tutte le guerre e le sanzioni.

Cosa aspettarsi da qui al 14 dicembre

Fino al secondo turno vedremo due operazioni parallele.

La strategia dell’estrema destra

Kast cercherà di:

  • Presentarsi come moderato in economia, garantendo stabilità a imprenditori e investitori;
  • Radicalizzare il discorso su sicurezza e migrazione, sfruttando ogni episodio di violenza o criminalità con grande amplificazione mediatica e tramite le reti di disinformazione;
  • Consolidare il sostegno di tutta la destra tradizionale, che ha già iniziato ad allinearsi in nome della difesa “contro il comunismo”.

La sfida di Jara e della sinistra cilena

Jara, per avere reali possibilità, deve:

  • Riconquistare il tema della sicurezza con proposte credibili che combinino polizia, intelligence e politiche sociali – e farlo senza accettare la logica di guerra interna proposta dall’estrema destra;
  • Parlare a quel “centro stanco” – che non si fida né di Kast né del sistema politico – senza abbandonare la propria base popolare;
  • Trasformare il secondo turno in un plebiscito chiaro: democrazia sociale imperfetta o autoritarismo ultraliberale.

Questo richiede qualcosa che la sinistra, in tutto il mondo, fa sempre più fatica a costruire: unire ragione e indignazione, dati e affetto, memoria storica e risposte concrete alla paura quotidiana.

Conclusione: cosa è in gioco quando il Cile vota

Le elezioni del 2025 in Cile non sono un episodio isolato. Fanno parte di una disputa globale tra due progetti di futuro: da una parte, il tentativo di ricostruire uno Stato sociale democratico in un mondo in collasso climatico e sociale; dall’altra, la promessa seducente di “ordine” offerta da leader autoritari, al prezzo di diritti, democrazia e vite sacrificabili.

Jeannette Jara porta con sé, con tutte le contraddizioni di una sinistra costretta a moderarsi per sopravvivere, la speranza che il Cile possa finalmente abbandonare il laboratorio neoliberale e ricostruire un modello di dignità per la maggioranza. José Antonio Kast rappresenta esattamente l’opposto: la normalizzazione di un fascismo di mercato in piena era di crisi multiple.

Quello che il popolo cileno deciderà il 14 dicembre non resterà confinato oltre le Ande. Sarà un messaggio per tutta l’America Latina – e anche per l’Europa – su quanto lontano la paura può spingere le società, e su quanto ancora la speranza è capace di resistere.