23 Novembre 2025
Quando il cancelliere tedesco guarda l’Amazzonia dall’alto
La foresta in piedi è un progetto politico, non uno sfondo esotico

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera
Il cancelliere della Germania, Friedrich Merz, avvocato d’impresa, milionario e leader dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU), partito di destra liberal-conservatrice, ha assunto il governo nel maggio 2025, dopo le elezioni anticipate nel Paese.
Ha trascorso poche ore a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, per partecipare alla COP30. Tornato in Europa, ha riassunto l’esperienza dicendo che i giornalisti e i membri della delegazione erano felici di “lasciare quel posto” e tornare in Germania.
Non è stato un semplice “scivolone”. È l’espressione aperta di uno sguardo coloniale e xenofobo, che continua a vedere il Sud globale come periferia sporca, arretrata, un palcoscenico scomodo dove si atterra per fare discorsi – non un luogo in cui si riconoscono diritti, cultura e dignità.
Belém non è “quel posto”
Belém non è stata scelta a caso per ospitare la COP30: è la porta d’accesso della più grande foresta tropicale del pianeta, sulla linea dell’Equatore, un bioma decisivo per il clima globale e per la vita di milioni di persone, compresi centinaia di popoli indigeni.
Portare la COP in Amazzonia ha significato spostare l’asse della diplomazia climatica: invece di saloni europei che discutono a distanza del “destino della foresta”, la conferenza si svolge dove la foresta esiste – e dove emergono, senza filtri, disuguaglianza, razzismo ambientale, violenza contro i popoli tradizionali. È la “COP della verità” proprio perché costringe il mondo a guardarsi in questo specchio.
Quando il cancelliere si riferisce alla città che ospita il vertice come “quel posto”, non insulta solo Belém. Mette in discussione l’idea stessa che l’Amazzonia possa essere soggetto – e non solo oggetto – del dibattito climatico.
La risposta del Brasile
Le parole di Merz hanno provocato una reazione immediata. Il Senato brasiliano ha approvato una mozione di censura, le autorità del Pará e di Belém hanno denunciato il carattere pregiudiziale delle dichiarazioni e Lula, con tono fermo e ironico, ha ricordato che forse il cancelliere avrebbe dovuto uscire dal circuito ufficiale e conoscere davvero la città – la sua gente, la sua cultura, il suo cibo, la vita nelle strade.
Non si tratta di orgoglio nazionale ferito. Si tratta di rifiutare, nel XXI secolo, che un leader europeo parli dell’Amazzonia con lo stesso disprezzo che un tempo ha giustificato colonizzazione, schiavitù e saccheggio di risorse.
L’Europa che ha disboscato, l’Amazzonia che resiste
L’ironia è evidente: la stessa Europa che oggi ama presentarsi come campionessa della “transizione verde” ha distrutto la maggior parte delle sue foreste nel corso dei millenni, per fare spazio all’agricoltura e alimentare l’industrializzazione. Quando i boschi temperati furono abbattuti, la logica di distruzione è stata esportata verso Sud – legname, miniere, monocolture.
L’Amazzonia, al contrario, è ancora uno dei più grandi serbatoi di carbonio del pianeta, regolando piogge e clima ben oltre i confini del Brasile. Chi vive nella regione sostiene da decenni il costo ambientale di un modello economico che ha arricchito il Nord globale.
È proprio questa regione, questa popolazione, che il cancelliere tedesco tratta come un “posto” da cui fuggire sollevati.
La lettera di Jamil Chade: il nuovo muro di Berlino
Dall’altra parte di questa storia c’è Jamil Chade, giornalista brasiliano, corrispondente internazionale da circa vent’anni in Europa, più volte indicato tra i reporter più ammirati del Paese, con un lavoro di lunga data in testate come O Estado de S. Paulo e UOL, oltre a collaborazioni con BBC, Al Jazeera, The Guardian, El País e altre.
È lui che risponde al cancelliere con una lettera-video, dal titolo chiarissimo: “tua xenofobia com o Brasil é o novo muro de Berlim” – “la tua xenofobia nei confronti del Brasile è il nuovo muro di Berlino”.
Nella lettera, Chade ricorda che Belém è una città viva, con storia e contraddizioni, e denuncia il razzismo e il classismo impliciti nel trattare l’Amazzonia come uno spazio inferiore. Riconosce che la COP mette a nudo anche “le nostre vergogne” – disuguaglianza, abbandono, violenza –, ma insiste: questo non autorizza nessun europeo a parlare dei brasiliani come persone di seconda classe.
Per chi volesse vedere la versione integrale, basta cercare su UOL News:
“Carta para o chanceler alemão: tua xenofobia com o Brasil é o novo muro de Berlim”, di Jamil Chade.
Il paradosso tedesco
Lo scandalo esplode proprio mentre la Germania annuncia nuovi contributi finanziari a fondi dedicati alla preservazione delle foreste tropicali, come il Fondo Amazzonia e il meccanismo globale proposto dal Brasile per remunerare chi mantiene la foresta in piedi.
Queste risorse sono importanti e necessarie. Paesi segnati da povertà e disuguaglianza non riusciranno a portare avanti una transizione ecologica senza un sostegno internazionale stabile. Ma i soldi non comprano il diritto all’insulto. Una cosa è riconoscere la responsabilità storica dell’Europa e sostenere politiche di preservazione. Un’altra è immaginare che assegni “verdi” autorizzino il disprezzo verso le città, i popoli e le culture che abitano quei territori.
La foresta in piedi è un progetto politico, non uno sfondo esotico
Ciò che è in gioco a Belém non è solo un paragrafo in più negli accordi sul clima. È il riconoscimento che la foresta in piedi richiede un altro modello di sviluppo – meno predatorio, meno concentratore di ricchezza, meno razzista.
L’Amazzonia non è un parco tematico né un semplice “polmone del mondo” da usare nella propaganda. È un territorio abitato, con popoli originari, comunità ribeirinhas, quilombolas, lavoratori urbani, ricercatori, artisti, agricoltori. Non esiste una politica ambientale seria che non li metta al centro.
Se la Germania e l’Europa vogliono davvero guidare la lotta climatica, dovranno attraversare il proprio muro: il razzismo strutturale e l’arroganza coloniale che ancora plasmano lo sguardo sul Sud globale.
Il cancelliere tedesco deve scusarsi con Belém, con l’Amazzonia e con il popolo brasiliano. E il mondo deve capire che, di fronte alla crisi climatica, non esistono superiori e inferiori, centro e periferia. O si riconosce la dignità di chi protegge la foresta che resta, oppure non ci sarà un futuro dignitoso per nessuno – né a Belém, né a Berlino.

