Editoriale
Non è ancora fine vita
di Lavinia Orlando
Le tematiche del suicidio assistito e, in generale, del fine vita si confermano uno dei peggiori talloni d’Achille della politica italiana. Del resto, se il Parlamento non è stato in grado di determinarsi quando aveva una composizione teoricamente meno imbrigliata in gangli cattolico-conservatori, figurarsi cosa (non) aspettarsi allo stato attuale.
In presenza di una politica del tutto sorda alle richieste provenienti dai cittadini e nonostante si tratti di problematiche estremamente sensibili, il legislatore ha proseguito con l’atteggiamento ignavo che, su queste tematiche, ma non solo, gli è più congeniale.
Come sovente accade, sono state solo l’intransigenza e la disperazione dei cittadini a smuovere le acque. Si veda la scelta di Marco Cappato di sottoporsi a processo per aver rafforzato il proposito suicidario ed agevolato l’esecuzione del suicidio di dj Fabo, tetraplegico e cieco a causa di un incidente stradale, accompagnato da Cappato medesimo presso una clinica Svizzera dove Fabo si è tolto la vita a mezzo di iniezione letale. Cappato è stato prosciolto perché il fatto non sussiste, solo grazie alla declaratoria della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 242 del 2019, ha ritagliato spazi di non punibilità con riferimento alle condotte ascrivibili come “aiuto al suicidio”, di cui all’articolo 580 del codice penale, le stesse condotte per cui Cappato era stato imputato.
Tale disposizione, che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, dopo l’intervento dei Supremi giudici, è in parte costituzionalmente illegittima. È difatti possibile fornire il proprio ausilio ad una persona che voglia morire – c.d. suicidio assistito – senza per questo rischiare una condanna penale, purché il suicidio riguardi un soggetto malato terminale, che per tale condizione patisca afflizioni intollerabili, ma che sia al contempo pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. È, tuttavia, necessario che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Ed è proprio quest’ultima parte del provvedimento a richiedere un intervento legislativo finalizzato a garantire procedure e tempistiche certe per chi intenda ricorrere all’ausilio alla morte volontaria.
Nonostante siano trascorsi anni dal provvedimento visto; nonostante la medesima Corte, nel 2018, cioè ben un anno prima dalla pronuncia definitiva, si fosse già determinata con ordinanza, anticipando l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio, ma rinviando la decisione ad una successiva udienza fissata a quasi un anno di distanza dalla prima, in modo da consentire al legislatore di intervenire per sanare il vizio e bilanciare i vari interessi in gioco; nonostante la chiarezza del provvedimento del 2019; nonostante tutto ciò, il legislatore ha continuato beatamente a fare orecchio da mercante.
Da ultimo, spicca la decisione del Consiglio regionale del Veneto, che per primo – e di questo gli va dato atto – ha affrontato la tematica del suicidio medicalmente assistito col progetto d’iniziativa popolare depositato dall’associazione Luca Coscioni, dopo aver raccolto migliaia di firme a sostegno. La bocciatura del progetto lascia dietro di sé strascichi politici non indifferenti. Da una parte, è significativo il parere favorevole del Presidente Zaia, leghista della prima ora, in aperto conflitto, sulla tematica, col suo partito; dall’altra va evidenziato il voto contrario di una consigliera Pd, senza il quale, tra l’altro, la legge sarebbe stata approvata.
È questo solo l’ultimo tassello di una storia infinita, che lascia ancora l’Italia ben distante dal minimo sindacale nell’ambito dei diritti civili, con l’aggravante di non consentire spiragli circa possibili e celeri futuri sviluppi.
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