Esteri
Dai Paesi Socialisti ai Paesi non Allineati
La Repubblica Popolare Cinese è senz’altro il paese socialista più sviluppato, evoluto e tecnologicamente avanzato, che il 1° ottobre 2022 commemora il 73° anniversario della sua creazione, con altri quattro paesi comunisti nel mondo: Cuba, Corea del Nord, Vietnam e Laos. Questi Stati, che contano circa 1.540 milioni di abitanti, conservano il sistema del partito unico ereditario del marxismo-leninismo, basato sulla democrazia radicale diretta e la dittatura di classe. Tutti i paesi citati, tranne la Corea del Nord, si sono aperti ad una relativa economia di mercato.
di Maddalena Celano
La Repubblica Popolare Cinese è senz’altro il paese socialista più sviluppato, evoluto e tecnologicamente avanzato, che il 1° ottobre 2022 commemora il 73° anniversario della sua creazione, con altri quattro paesi comunisti nel mondo: Cuba, Corea del Nord, Vietnam e Laos. Questi Stati, che contano circa 1.540 milioni di abitanti, conservano il sistema del partito unico ereditario del marxismo-leninismo, basato sulla democrazia radicale diretta e la dittatura di classe. Tutti i paesi citati, tranne la Corea del Nord, si sono aperti ad una relativa economia di mercato.
– Cuba –
I comunisti sono al potere a Cuba da 63 anni. Il 1 gennaio 1959, la rivoluzione guidata da Fidel Castro spazzò via la dittatura di Fulgencio Batista e istituì una repubblica socialista. Nel 2006 Raúl Castro è diventato il successore di suo fratello e ha favorito l’attività economica privata. Nel 2011 ha autorizzato i cubani ad acquistare e vendere la loro proprietà e, nel 2013, ha revocato le restrizioni che impedivano ai cubani di recarsi all’ estero. Dal 2014 si incoraggiano anche gli investimenti all’estero. Nell’aprile 2017, Miguel Díaz-Canel è diventato il decimo presidente. Cuba, sotto l’embargo Statunitense che dura dal 1962, soffre attualmente di una carenza di benzina dovuta al rafforzamento della sanzioni statunitensi come rappresaglia per il suo sostegno al Venezuela. La nuova Costituzione riconosce il mercato e la proprietà privata come parte dell’economia nazionale, ma insiste sul suo carattere “irrevocabile” del socialismo.
– Corea del nord –
Il Partito Comunista governa da 77 anni la Corea del Nord, considerato uno dei paesi più ermetici al mondo. Nel 1945 la Corea crea una sua moneta a pieno titolo. Il Nord, è sostenuto dall’Unione Sovietica e guidato da Kim Il Sung, e il Sud, è protetto dagli Stati Uniti. Il 9 settembre 1948 Kim Il Sung fondò la Repubblica Popolare Democratica di Corea. Nel 2002, Kim Jong Il, figlio di Kim Il Sung, iniziò la liberalizzazione economica e mantenne uno stretto controllo statale sulla sua economia. Il paese più militarizzato del mondo ha riconosciuto, nel 2003, di voler ottenere armi nucleari, questo ha portato molti Stati a tagliare le loro relazioni diplomatiche o a sanzionarlo. Nel 2009 il Paese ha visto la sua nuova Costituzione, cancellando il riferimento al comunismo e proclamando il primato del ‘Kimilsunismo’ e del ‘Mimjongilismo’. Kim Jong Un è diventato il terzo leader della dinastia Kim nel 2011.
– Vietnam –
Il Partito Comunista governa il Vietnam da 44 anni. Quando la guerra in Indonesia finì nel 1954, il Vietnam era diviso in due: la Repubblica Democratica del Vietnam a nord, guidata da Ho Chi Minh, e la Repubblica del Vietnam a sud, sostenuta dagli Stati Uniti. Quando la guerra del Vietnam finì, il Vietnam comunista del nord entrò a Saigon il 30 aprile 1975, e battezzarono la città Ho Chi Minh City. Il Vietnam unito nasce nel 1976. Dal 1986 il governo si è aperto all’economia di mercato. Nel 1994 gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo e il Paese ha conosciuto un grande boom di investimenti. Nel 2000 il Vietnam e gli Stato Uniti hanno firmato un accordo commerciale e preparato la borsa valori di Ho Chi Minh City. Nel 2007, il Vietnam è diventato una parte importante dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Il paese ha conosciuto una crescita economica significativa (più 7,1% nel 2018).
– Laos –
Dopo 46 anni di governo comunista, il Laos è uno dei paesi più poveri dell’Asia. Questa ex colonia francese (fine 1953) divenne comunista solo alla fine del 1975, quando finì la guerra del Vietnam, con la fine della monarchia, rovesciata dai rivoluzionari. Il Partito Rivoluzionario Popolare del Laos (PRPL), che detiene il potere politico e militare, nel 1986 decide di liberalizzare l’economia. Nel 2011 ho aperto la Borsa di Vientiane, la capitale. Il paese è membro dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) dal 1997 e dell’OMC dal 2013. I paesi sopra citati hanno realizzato il loro obiettivo anticapitalista attraverso vari percorsi nazionali in una lotta contro l’oppressione imperialista. La radicalizzazione di queste battaglie determina l’esordio del socialismo in ogni paese della periferia. Come viene elaborata questa dinamica?
Qual è la sua validità nel 21° secolo?
I primi legami tra socialismo e antimperialismo furono stabilizzati da Marx nella sua denuncia dell’oppressione coloniale. Il filosofo di Treviri presupponeva che la trasformazione socialista fosse localizzata in Europa, e che la periferia potesse diventare una regola secondaria in quella mutazione. Successivamente, l’autore del Capitale, ha evidenziato l’effetto positivo della grande rivolta dei paesi sottosviluppati e ha particolarmente elogiato le rivolte in Irlanda (che, all’ epoca, era un paese piuttosto sottosviluppato). Sottolineando che la sua convergenza, con la questione sociale dell’Inghilterra, avesse favorito la gestazione di un sapere solidale nel proletariato: […] dopo essermi occupato per anni della questione irlandese, sono giunto al risultato che il colpo decisivo contro le classi dominanti in Inghilterra (ed esso sarà decisivo per il movimento operaio all over the world ) può essere sferrato non in Inghilterra, bensì soltanto in Irlanda. Il 1° gennaio 1870 il Consiglio generale ha emanato una circolare segreta, da me redatta in francese – (per il contraccolpo sull’Inghilterra sono importanti soltanto i giornali francesi, non quelli tedeschi) – sul rapporto tra la lotta nazionale irlandese e l’emancipazione della classe operaia e quindi sulla posizione che l’Internazionale deve assumere nei riguardi della questione irlandese. Riassumo qui brevemente per voi i punti decisivi. L’Irlanda è il bulwark dell’aristocrazia fondiaria inglese. Lo sfruttamento di questo paese non è soltanto una delle fonti principali della sua ricchezza materiale. Esso è anche la sua massima autorità morale. Di fatto essi rappresentano il dominio dell’Inghilterra sull’Irlanda. L’Irlanda, perciò è il grand moyen mediante il quale l’aristocrazia inglese conserva il suo dominio anche in Inghilterra. D’altro canto: se domani l’esercito e la polizia inglese si ritirano dall’Irlanda, voi avrete immediatamente an agrarian revolution in Irlanda. La caduta dell’aristocrazia inglese in Irlanda condiziona, a sua volta, e ha come conseguenza necessaria la sua caduta in Inghilterra. Ciò soddisferebbe la condizione preliminare per la rivoluzione proletaria in Inghilterra. Poiché in Irlanda, sino ad oggi, la questione agraria è stata la forma esclusiva della questione sociale, poiché essa è una questione di pura sopravvivenza, una questione di vita o di morte, per l’immensa maggioranza del popolo irlandese, poiché, al tempo stesso, essa è inscindibile dalla questione nazionale, l’annientamento dell’aristocrazia fondiaria inglese in Irlanda è un’operazione infinitamente più facile che non in Inghilterra. Tutto ciò a prescindere dal carattere, più passionale e rivoluzionario degli irlandesi, rispetto agli inglesi. Per quanto riguarda la borghesia inglese questa ha d’abord in comune con l’aristocrazia inglese l’interesse a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi più bassi possibili for the english market. Essa ha lo stesso interesse a ridurre la popolazione irlandese al minimo mediante eviction e emigrazione forzata; in modo che il capitale inglese (capitale d’affittanza) possa funzionare in questo paese con “security”. Essa ha i medesimi interessi in clearing the estate of Irland , che aveva in the clearing of the agricultural districts of England and Scotland. Le 6.000-10.00O sterline dei proprietari assenteisti e delle altre rendite irlandesi che oggi affluiscono ogni anno a Londra, sono pure da mettere in conto.
Ma la borghesia inglese ha interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese. Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiù al labour market inglese e in tal modo comprime i wages nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese. E ora la cosa più importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime lo standard of life [21]. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su sé stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i poor whites verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese pays him back with interest in his own money. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo. […]
L’iniziale internazionalismo cosmopolita di Marx si è evoluto in un abbraccio all’unione dei movimenti anticoloniali, con le azioni della classe operante nella metropoli. Nello scenario della guerra inter-imperialista, all’inizio del XX secolo, Lenin ha trasformato questa ipotesi in una strategia globale. Rifiutava l’idea socialdemocratica del clientelismo sulle colonie, denunciava frontalmente l’imperialismo e si opponeva alla distinzione tra modalità regressiva e e modalità benevola di quel dominio. Ha sottolineato il diritto dei popoli oppressi all’autodeterminazione e ha discusso con i sostenitori del puro internazionalismo, e ha messo in dubbio il potenziale progressivo di tale affermazione:
In primo luogo, qual é l’idea più importante, fondamentale, delle nostre tesi? In antitesi alla politica della II Internazionale, noi consideriamo non solo la questione dell’emancipazione delle colonie, ma anche quella delle piccole nazioni che, dal punto di vista finanziario economico e politico, sono oppresse delle grandi potenze capitalistiche. Il tratto saliente dell’imperialismo consiste nel fatto che tutto il mondo si divide oggi in un gran numero di nazioni oppresse e in un numero veramente insignificante di nazioni estremamente ricche e militarmente potenti, che opprimono le prime. La stragrande maggioranza della popolazione della terra, superiore al miliardo (molto verosimilmente un miliardo e 250 milioni), vale a dire il 70% della popolazione del globo, se si calcola che essa è pari a un miliardo e 750 milioni di uomini, appartiene alle nazioni oppresse. Queste ultime o si trovano in una situazione di dipendenza coloniale diretta, o sono delle semi-colonie, come ad esempio la Persia, la Turchia, la Cina, oppure sono paesi che dopo essere stati sconfitti dall’esercito di una grande potenza imperialista si trovano in uno stato di completo asservimento. La distinzione tra le nazioni che opprimono e le nazioni oppresse ispira tutte le nostre tesi, non soltanto le tesi iniziali pubblicate con la mia firma, ma anche quelle del compagno Roy. Queste ultime tesi sono state redatte principalmente dal punto di vista della posizione dell’India e delle altre grandi nazionalità asiatiche, ed è per questo che esse sono particolarmente importanti per noi.
In secondo luogo, ciò che importa ribadire nelle nostre tesi è che la presente situazione del mondo e i rapporti reciproci tra le nazioni dopo la guerra imperialista si basano sulla lotta tra un piccolo gruppo di nazioni imperialiste e le potenze dove esiste un movimento sovietico o nelle quali il potere degli imperialisti è stato rovesciato dal potere sovietico. Se perderemo di vista questo fatto, non potremo impostare giustamente nessuna questione nazionale o coloniale, anche se si tratta dell’angolo più sperduto del mondo. Solo da questo punto di vista i partiti comunisti possono impostare e risolvere correttamente i problemi politici relativi tanto ai paesi civili quanto ai paesi arretrati.
In terzo luogo, vorrei sottolineare particolarmente la questione del movimento democratico-borghese nelle regioni arretrate. È appunto questo il problema che è stato oggetto di molte discussioni. Ci siamo domandati se sia giusto o non sia giusto affermare sul piano teorico, sul piano dei princìpi, che l’Internazionale comunista e i partiti comunisti devono appoggiare i movimenti borghesi democratici nei paesi arretrati. Per effetto di questa discussione siamo arrivati all’unanime conclusione che noi non abbiamo nulla a che fare con i movimenti democratici-borghesi e che soltanto i movimenti rivoluzionari nazionali devono interessarci. Non c’è il minimo dubbio che ogni movimento nazionale non può essere che un movimento democratico, perché la maggioranza della popolazione dei paesi arretrati è costituita dai contadini, cioè dai rappresentanti della classe media capitalista. Sarebbe utopistico pensare che i partiti proletari – ammesso che ci sia qualche possibilità di costituirli – siano in condizione di sviluppare un’attività comunista, di applicare una politica comunista, senza stabilire determinati rapporti con i contadini e senza fornire loro un appoggio effettivo.
Ma, a questo proposito, si è obiettato che parlando di movimento borghese-democratico, si cancella ogni differenza tra i movimenti riformisti e i movimenti rivoluzionari. E invece, proprio negli ultimi tempi, questa differenza si è manifestata con la massima evidenza nei paesi arretrati e nelle colonie, dove la borghesia imperialista cerca con tutti i mezzi di creare un movimento riformista. Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali si registra una certa intesa, sicché molto spesso la borghesia dei paesi oppressi, pur sostenendo il movimento nazionale, lavora di concerto con la borghesia imperialista contro tutti i movimenti rivoluzionari. Questo fatto è stato documentato irrefutabilmente in sede di commissione, e al fine di ribadire meglio questa differenza, l’espressione “borghesie democratiche” è stata sostituita quasi dappertutto nelle tesi con l’espressione “rivoluzionari nazionali”. L’idea è che noi, in quanto comunisti, dobbiamo appoggiare i movimenti borghesi per l’emancipazione delle colonie solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati. In assenza di tali condizioni anche nei paesi arretrati i comunisti devono combattere la borghesia riformista, alla quale appartengono anche gli eroi della II Internazionale. I partiti riformisti già esistono nei paesi coloniali, ed essi rappresentano naturalmente la borghesia riformista, anche se qualche volta si fregino del titolo di socialdemocratici o di socialisti. Questa distinzione è stata inserita in tutte le tesi, e io penso che, così facendo, siamo riusciti a formulare molto più esattamente il nostro punto di vista. Queste idee hanno contribuito a rafforzare la corrente comunista che ha guidato l’insurrezione bolscevica. L’attitudine rivoluzionaria dell’Europa si trasferì in Oriente e Lenin specificò la sua politica antimperialista. Ha distinto il nazionalismo conservatore dei capitalisti locali, dal nazionalismo rivoluzionario dei settori oppressi. Questa strategia ha guidato i marxisti dal dopoguerra, durante il periodo d’oro dell’antimperialismo. Quel fiore ha accompagnato la decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia e il trio di rivoluzioni in Cina, Vietnam e Cuba. Per raggiungere questi obiettivi, la maggior parte dei partiti comunisti hanno promosso una prima fase del capitalismo nazionale, in alleanza con la borghesia. Queste correnti postulavano strategie di rivoluzione permanente o ininterrotta, sottolineando la regola guida del Terzo Mondo o la confluenza con la classe operaia della metropoli.
Successo e frustrazione
La forte eredità della radicalizzazione antimperialista e del successo socialista è confermata dalla rivoluzione cubana. Quella rivolta ha risposto all’aggressione yankee con trasformazioni anticapitaliste. Quel corso ha dimostrato che era possibile portare avanti un processo socialista a 90 miglia da Miami. Ha anche fornito argomentazioni criticando la strategia dello stringere alleanze con la piccola borghesia locale e ha rafforzato la proposta di convergenza con il nazionalismo rivoluzionario de-coloniale. La rivoluzione cubana ebbe un’estensione continentale attraverso l’ azione del Che. Ha postulato che il socialismo debba prendere forma nella sua scala regionale, in forte contrasto con l’Unione Sovietica, che scommetteva sulla pacifica convivenza con gli Stati Uniti. Con questo spirito ha forgiato la Conferenza Tricontinentale. La rivoluzione era l’assunto principale di quella strategia. Il percorso insurrezionale sovietico e il percorso di una lunga guerra popolare erano visti come le principali opzioni per la conquista del potere. Una transizione pacifica al socialismo era difficilmente immaginabile nel Terzo Mondo. Questi percorsi furono promossi nell’Europa Occidentale, scommettendo su un effetto imitativo dei successi ottenuti dal blocco socialista. Poiché tutte le rivoluzioni irrompono alla periferia per raggiungere qualche obiettivo nazionale, democratico o agrario, l’idea di radicalizzare questi processi è stata ampiamente accettata. Quel periodo di speranze per un avanzamento accelerato del progetto socialista si è concluso in America Latina, negli anni ’80, con tre grandi frustrazioni. La prima delusione è stata la sconfitta dei movimenti di guerriglia, che hanno generato valutazioni molto critiche sulla strategia foquista di Che Guevara. Il fallimento dell’Unità Popolare in Cile è stato il secondo shock. Salvador Allende ha tentato questo percorso graduale attraverso un accordo con l’opposizione. Ma fu intrappolato nel colpo di stato e non sapeva come utilizzare l’appoggio popolare per sconvolgere il pinochettismo. Quella tragica esperienza ha confermato la necessità di una rivoluzione senza dilemma. La terza frustrazione è stata ciò che è accaduto in Nicaragua. Il trionfo contro la dittatura di Somoza e le vessazioni del Pentagono sembravano dapprima ripetere la via Cubana. Ma i sandinisti cedettero all’assedio militare, bloccarono le trasformazioni sociali e si accordarono con i loro vecchi avversari. Perdendo le elezioni, hanno provocato un clima di grande dolore in tutta la sinistra regionale. I risultati di questa esperienza non hanno confermato la centralità della radicalizzazione antimperialista per il raggiungimento dell’obiettivo socialista. Piuttosto, hanno indicato percorsi errati per sviluppare quella strategia. Ma l’attualità di questa politica va valutata alla luce delle enormi mutazioni degli ultimi 30 anni.
Tre cambi sostanziali
Il primo grande cambiamento è stata la fase neoliberista, iniziata negli anni ’80, con l’affermarsi di un modello capitalista lontano dal keynesismo del dopoguerra. Il neoliberismo è una pratica reazionaria, un pensiero conservatore e un sistema di controllo del corpo sociale e del lavoro. Genera deterioramento dei salari e precarietà nel lavoro, attraverso lo spostamento dei capitali a est o al sud. Utilizza la tecnologia dell’informazione per aumentare la disoccupazione, accentuare la marginalità urbana ed espandere la privazione dei diritti civili. Questo schema opera al servizio della stampa transnazionale che promuove il libero scambio per abbassare i salari e demolire il welfare state. La rivoluzione digitale è usata, a sua volta, per alienare i popoli, incrementare il controllo ideologico e trarre profitto facilitando l’attività speculativa della banca globale che opera senza controllo. Questo modello accresce la creduloneria popolare e fa precipitare i popoli in una grande crisi. Perciò scoppiano rivolte a causa della contrazione del reddito popolare, della sovrapproduzione e dell’espansione delle bolle finanziarie. Il capitalismo neoliberista trasmette l’ illusione della saggezza dei mercati e nella prosperità spontanea. In realtà, moltiplica la povertà, la disoccupazione e mina la legittimità del sistema politico. Se la sinistra non è in grado di incanalare il malcontento sociale, il malcontento viene catturato dalla destra. Il secondo cambiamento negativo del periodo deriva dalla decadenza dell’Unione Sovietica. La rilevanza di questo evento è corroborata dalla periodizzazione del Novecento come periodo breve (1917-1989), dato dell’emergere e del confronto con quel sistema. Il neoliberismo si consolidò con quel crollo. L’esistenza dell’URSS aveva terrorizzato le classi dominanti che concedevano, perciò, diritti sociali senza precedenti. Proprio grazie alla paura del comunismo sono nati il welfare state, la fornitura gratuita di alcuni servizi di base (scuola e sanità), l’obiettivo della piena occupazione e l’aumento dei consumi popolari. Con la fine dell’URSS, i capitalisti tornarono ai classici meccanismi di sfruttamento semi-schiavistico. I problemi economici non hanno determinato il crollo di quel sistema. L’URSS ha sovra-performato il suo equivalente in termini di PIL pro capite, qualità della vita, della salute e dell’istruzione. Il crollo del regime sovietico fu determinato dal raggiungimento di una rivolta politica. I governanti scommisero sulla propria conversione in regime borghese. Quando hanno trovato l’opportunità di fare quel salto, hanno abbandonato la composizione socialista. La popolazione ha tollerato questo cambiamento dovuto a decenni di immobilismo e depoliticizzazione. Il terzo cambiamento del periodo si trova nella nuova struttura dell’imperialismo (basato maggiormente sulla propaganda, sul terrore ideologico e la comunicazione). Questo dispositivo prevede un maggiore coordinamento delle azioni di gendarmeria, per far fronte alla nuova integrazione globale dei capitali. Questa forma di gestione collettiva prevalse contro l’estinzione della vecchia guerra inter-imperialista. Nessuno prevede più il ripetersi di conflitti armati tra Stati Uniti, Germania o Giappone. La mancanza di proporzionalità tra il primato economico e l’egemonia politico-militare impedisce il riapparire di questa conflagrazione. Nonostante la relativa perdita di preminenza economica, gli Stati Uniti mantengono una leadership spietata come protettori ideologici del capitalismo. Conservano un’assoluta preponderanza militare e una leadership delle operazioni internazionali più rischiose. Ma gli imperi centrali non agiscono più come gli unici protagonisti del monopolio Mondiale. Le appendici integrate nella struttura dominante (Israele, Australia, Canada) erano le più rilevanti e la formazione sub-imperiale autonoma (Turchia, India) era la più influente sulla loro scala regionale. Svolgono un ruolo tanto reazionario quanto destabilizzatore dell’ordine globale. Anche se la fine degli Stati Uniti (da Russia, Cina) era attesa da tempo, gli USA restano ancora influenti, soprattutto in ambito propagandistico. Russia e Cina (e loro alleati) attualmente agiscono in modo difensivo contro l’imperialismo e in modo offensivo nel confronto dei vicini atlantisti. Questi convulsi ruoli delle potenze centrali, delle appendici, dei sub-imperi e degli imperi in formazione si verificati in uno scenario di guerra permanente, come in Medio Oriente. In questo contesto di neoliberismo, la scomparsa dell’URSS e il rimodellamento dei meccanismi imperiali, l’antimperialismo è stato sconfitto? Alcuni analisti stimano che l’antimperialismo abbia perso grazie al forte impatto della globalizzazione. Si crede che l’ anti-imperialismo sia ben poca cosa, una dimensione cieca, che porti al declino le cause locali e che abbiano bisogno di una risposta immediata, nel nuovo scenario delle lotte anti-sistema nella sua scala globale. Ma non forniscono esempi di tali resistenze direttamente, a livello globale. È evidente che tradizioni, organizzazioni e programmi nazionali continuano a contraddire le mobilitazione della regione. Altri autori affermano che l’anti-imperialismo sia obsoleto. Anche perché resosi strumentale al alcuni movimenti di estrema destra o nazisti, per proclami indipendentisti o autonomisti. Ma non evidenziano come l’oppressione nazionale sia riemersa con nuove guerre, migrazioni e ridisegno dei confini. Tenendo conto che l’intervento imperiale sia stato intensificato con pretesto umanitario. Basti osservare la demolizione del Medio Oriente o la disintegrazione dell’Africa, per misurare il raggiungimento di questa tragedia. Ci sono pensatori che riconoscono il peso dell’antimperialismo, ma lo percepiscono come aspetto negativo o foriero di incertezze e addirittura una giustificazione per le tirannie locali. Sottolineano le divisioni culturali tra i lavoratori, generando tensioni artificiali sui costumi, o tra i gruppi etnici che compongono i vari gruppi nazionali. Queste polemiche valgono sicuramente per il nazionalismo reazionario di Trump o di Le Pen (che è ostile ai diritti civili, ai diritti sociali e soffia sul fuoco dei sentimenti razzisti). Ma non si può applicare a Chávez-Maduro o a Evo Morales. Entrambe le varianti sono separate dallo stesso abisso che in passato contrapponeva un Mussolini a un Sandino. Gli stessi che si oppongono all’ anti-imperialismo, hanno classificato questa diversità di leadership all’interno di un pacchetto comune, chiamandoli tutti “populisti”. La nuova combinazione di neoliberismo e xenofobia – per limitare l’immigrazione – è agli antipodi con il nazionalismo radicale di Venezuela, Bolivia o Palestina che, al contrario, al proprio interno integrano qualsiasi minoranza etnica e ogni idioma linguistico. Si presume anche che l’antimperialismo porti all’abbandono delle posizioni anticapitalistiche. L’esperienza ha dimostrato che le nazionalità autonome e sovrane e il socialismo non sono affatto antagonisti. Costituiscono una dovuto forma di reazione contro la sudditanza subita dai salariati e la sudditanza nazionale subita dagli oppressi. Queste battaglie condivise portano all’unione di resistenze comuni. L’antimperialismo persiste come un evento centrale, nel XXI secolo, e la cosa è confermata da tutti i processi latinoamericani dell’ultimo decennio. In questa regione si sono registrati cambiamenti significativi nell’interesse popolare. Le rivoluzioni classiche del XX secolo (Messico nel 1910, Bolivia nel 1952, Cuba nel 1959 e Nicaragua nel 1979) sono state sostituite da una ribellione continentale. Non scoppiarono più forme ribelli di potere parallelo, né organismi dello Stato a coronamento di esiti militari. Ci sono state importanti rivolte popolari in Venezuela, Bolivia, Ecuador e Argentina ma non hanno mai varcato la soglia della rivoluzione. Quelle rivolte hanno modificato i regimi politici, ma non hanno demolito lo Stato, né il suo esercito, né le sue istituzioni. Quelle rivolte conservarono un contenuto antimperialista misto a rivendicazioni contro il neoliberismo. In Bolivia, le successive “guerre dell’ acqua e del gas” (2000-2003) hanno affrontato le compagnie straniere che hanno cercato di trarre vantaggio dalla privatizzazione. In Ecuador (1997-2000) si sono battuti contro le banche straniere, la privatizzazione del petrolio e la presenza delle basi militari degli Stati Uniti. In Argentina (2001) la lotta dei disoccupati e della piccola borghesia si è scontrata con gli aggiustamenti del FMI. Anche in Venezuela (1989) hanno fatto riferimento all’aumento del prezzo della benzina e alle confische imposte delle banche internazionali. In tutti i casi, il debito estero ha operato come un grande fattore scatenante. In qualche modo, l’antimperialismo ha continuato a funzionare come il think tank della lotta popolare. Colpisce anche la permanenza del problema antimperialista nelle diverse varianti dei governi latinoamericani, nell’ultimo decennio. Tale centralità è verificata dalle ex amministrazioni centrali (Lula-Dilma, Kirchner, Correa), che hanno introdotto un sistema formale, nel sistema politico, sperimentando modelli economici “neo-sviluppatori”. Tentarono una certa autonomia nei confronti degli Stati Uniti, tenendolo distante dall’OAS, e dando ampio margine all’UNASUR. La seconda variante governativa latino-americana ha mantenuto un profilo di destra (Messico, Perù o Colombia), che si è ampliato con il restauro del conservatorismo, perpetrato tra vittorie elettorali (Argentina) e colpi di stato istituzionali (Brasile, Honduras, Paraguay), attraversando una sfacciata assunzione di politiche pro-USA. Come sempre accade in America Latina, i governi ultraliberali favorirono fanaticamente la preminenza del loro vecchio tutore. Tutti hanno sostenuto la politica di Trump, hanno convalidato l’aggressione contro il Messico, hanno partecipato alla cospirazione promossa dalla CIA e hanno delegato la sovranità in materia di spionaggio. La gravità del problema imperialista si è finalmente evidenziata con il governo radicale del Venezuela e della Bolivia. Quelle amministrazioni hanno attuato politiche di redistribuzione del reddito, in contrasto con la classe dirigente neoliberista e il padrino statunitense. Il Venezuela è ormai diventato l’epicentro di questi conflitti. Il Venezuela resiste a tutte le pretese statunitensi di assumere il controllo del principale fiume petrolifero continentale. Questi obiettivi spiegano l’escalation degenerata dall’opposizione neoliberista, dimostrando una variante del colpo di stato che combina il sabotaggio dell’economia con la violenza di strada. Questo confronto definirà il prossimo scenario nella regione. Una vittoria per la destra generalizzerebbe il sentimento di impotenza nei confronti dell’Impero, e un risultato inverso permetterebbe di sostenere la nuova ondata di lotte sociali. L’antimperialismo continua a definire la dinamica vita politica dell’America Latina. La sua gravità aumenta di fronte al progetto di neocolonizzazione di Biden, che integra con un’aggressione più soft al Venezuela con lievi e ambigue aperture verso Cuba. Questi oltraggi fanno rivivere il grande ricordo del rifiuto dell’interventismo statunitense.
Singolarità latinoamericana
Il caso latinoamericano illustra anche la specificità regionale del rapporto con l’emancipazione nazionale e l’emancipazione sociale. In questo campo non ci sono ricette comunitarie per l’intera area. C’è solo un generale approccio di obiettivi socialisti contrari all’oppressione imperiale, che si adattano alle diverse situazioni di ogni luogo. L’unità dell’America Latina è determinata dalla sua resistenza storica all’imperialismo statunitense. Il Pentagono non esercita più il suo dominio attraverso dittature e interventi aperti. Ma mantiene un grande primato geopolitico (che non condivide con la potenza europea). Biden sta per usare il suo potere per conquistare il primato totale degli Stati Uniti, di fronte alla nuova presenza della Cina. La sconvolgente incursione del colosso asiatico rianima tutti i dibattiti sull’antimperialismo. Nell’anno del boom dell’export latinoamericano, la possibilità di una partnership globale con la Cina non si è rivelata ancora fruttuosa nel compensare la subordinazione agli Stati Uniti. Invece di negoziare in blocco con il nuovo potere, i governi latino-americani hanno mantenuto il bilateralismo. Adesso la Cina tende a mettersi d’accordo come punto di riferimento per lo scambio libero contro Biden e tra lui e il potere, per contestare l’appropriazione statunitense del bottino latinoamericano. Un’altra particolarità dell’antimperialismo regionale è la sua stretta connessione con il desiderio di unità. Questo obiettivo stabilisce un soggetto storico pendente. Nell’ultimo decennio, ci sono stati alcuni schizzi di integrazione con UNASUR e varie iniziative di solidarietà di ALBA, contrarie al cambiamento neoliberista e diverso dal regionalismo capitalista del MERCOSUR. Ma l’opportunità di concretizzare questi progetti è stata frustrata e i governi di destra hanno ricreato, ancora un volta, una sorta di balcanizzazione regionale congelando UNASUR e paralizzano il MERCOSUR, per facilitare gli affari esclusivi della borghesia pro-USA. Tale incertezza facilita il rilancio di proposte anti-imperialistiche.
Convergenze e divergenze con Medio-oriente ed Europa
Le singolarità dell’anti-imperialismo si chiarisce nei contrasti tra le regioni. L’America Latina condivide con il mondo arabo la lotta comune contro il saccheggio. Entrambe le aree sono state sottomesse e colonizzate da diversi imperi. In Medio Oriente, sullo scenario bellico, la rivendicazione antimperialista non si aggiunge alle acute tensioni regionali e globali. Come incidente durante la seconda guerra mondiale, egli stesso affrontò battaglie democratiche e resistenze anti-imperialistiche. Le richieste nazionali, nel mondo arabo, si mescolano a intricati conflitti geopolitici e religiosi. Questa complessità spiega, ad esempio, che i trionfi del movimento nazionale curdo (e la sua conquista della zona autonoma) si abbiamo sotto la protezione circostanziale degli Stati Uniti. Una simile situazione sarebbe inconcepibile in America Latina. Altra particolarità sono i jihadisti che si contendono, con il Pentagono, azioni totalmente estranee all’antimperialismo. Operano come movimenti reazionari ostili a ogni cambiamento favorevole ai popoli. A causa dei diversi retroscena storici – con il peso di una scarsa teoria classista e il soffocamento del processo di democratizzazione secolare – il rapporto di emancipazione nazionale e sociale presenta, nel mondo arabo, un arretramento di gran lunga superiore a quello prevalente in America Latina. Anche la differenza con l’Europa è significativa. Nel Vecchio Continente, gli oppressori imperiali e le nazioni dipendenti (Germania con Grecia, Inghilterra con Irlanda) coesistevano in questo raggio geografico. Condividono l’integrazione con gli organismi dell’Unione Europea. Questa struttura neoliberista deve affrontare, ogni anno, un manifesto rifiuto popolare ogni volta che vi è una chiamata al voto. Provoca anche un forte risveglio nazionale contro la burocrazia di Bruxelles, al servizio delle multinazionali. Quella tensione è ricca nella resistenza nazionale contro i vecchi imperi, esattamente come lo fu nel novecento. Sentimenti contraddittori di sovranità e disintegrazione nazionale riaffiorano in questo rifiuto. La grande varietà di cultura, tradizioni e lingue che irrompono, in questi conflitti, contrasta con la maggiore omogeneità della configurazione latinoamericana. Per questo, nel Nuovo Mondo, non si verificano fenomeni come la frammentazione della Jugoslavia, la spartizione della Cecoslovacchia o gli impulsi sovranisti della Catalogna e della Scozia. Solo l’adattamento imposto dalla Troika alla Grecia è simile. Lì si verifica lo stesso catalogo di crudeltà che subisce l’America Latina. La Germania ha indicato la chirurgia economica e gli Stati Uniti hanno rafforzato il primato militare nelle regioni elleniche della NATO. In Grecia si elaborò anche una grande esperienza di resistenza popolare. Quella lotta fu interrotta dalla sottomissione alla Troika, generando frustrazioni maggiori di quelle vissute durante la rottura del ciclo progressista latinoamericano.
L’antimperialismo latinoamericano e il suo contributo all’idea di unità continentale
In tutte le regioni latino-americane, il socialismo è associato a un’esperienza determinata. In America Latina è strettamente identificato con il processo cubano, che ha fortificato diverse generazioni con la più grande ideologia di trasformazione sociale del secolo scorso. Cuba ha anche mostrato come uno schema socio-economico non capitalista consenta di evitare la fame, la criminalità generale e l’abbandono scolastico in un’economia con poche risorse disponibili. L’idea dell’unità continentale ha portato alla profusione del pensiero latinoamericano che, sulla base di diverse posizioni filosofiche e politiche, nonché socio-culturali, è ancora oggi un processo pienamente applicabile. Il continentalismo latinoamericano ha così portato a un marcato antimperialismo. Il concetto di continente è normalmente definito in termini geografici, come una massa continentale delimitata dal mare o da altri confini fisici. In America Latina, questo concetto ha acquisito un significato particolare che fa anche parte di un’ idea geografica: l’aspetto della comunità politica è addirittura “continentale”. La patria di un individuo non deve necessariamente trovarsi all’interno di un particolare stato-nazione. Infatti, secondo la moderna ricerca storica che ha studiato la formazione della comunità politica, il nazionalismo ha sempre preceduto la nazione. La nazione, quindi, non è innanzitutto un fenomeno predestinato per un territorio strettamente limitato, ma l’idea nazionale ha funzionato come un’utopia che ha spesso trovato il suo spazio fisico in modo arbitrario. Questa utopia dell’unità, già inventata all’interno della colonia e concretizzata nell’ideologia de Simón Bolívar, che si è nuovamente intensificata all’inizio del XX secolo, quando le nuove minacce hanno condiviso una vita continentale, come l’imperialismo statunitense, hanno creato le basi per nuovi movimenti intellettuali e sociali. Questo concetto di Nazione offre una nuova diversità intellettuale, nell’ultimo decennio del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, se è possibile definire il continentalismo antimperialista, e, in particolare, contribuire a tutte le idee di unità continentale. Quando si parla di movimento antimperialista continentale ci si riferisce a tutto il pensiero latinoamericano che scaturì da idee molto eterogenee (idee socialiste, umaniste, spiritualiste, ispaniche, indigeniste, ecc.), e i cui rappresentanti citeranno José Martí, José Enrique Rodó, Manuel Ugarte, José Vasconcelos, Víctor Raúl Haya de la Torre e Augusto César Sandino. Il discorso antimperialista di questi intellettuali era internazionalista e il continentalismo (l’appello all’unità) era determinato dalla minaccia esterna (l’imperialismo). La tradizione bolivariana dei tempi dell’indipendenza acquista nuove dimensioni. L’ America Latina doveva unirsi perché le strutture che avevano sfruttato il continente, per anni e anni, potessero essere eliminate e perché fosse finalmente possibile l’indipendenza economica politica. Da questo punto di vista, l’imperialismo straniero – insieme alla piccola oligarchia nazionale di ogni paese – ha impedito lo sviluppo nazionale e continentale; la volontà del popolo – nazione e sovranità continentale – non era realizzabile senza unificazione. La parola continentalismo è usata come sinonimo di nazionalismo, sebbene sia fatto in modo concettualmente rischioso. È ovvio che il concetto di nazionalismo ha avuto origine etimologicamente nella nazione. Tuttavia, il nazionalismo è qui inteso come un “pacchetto discorsivo” o come una “ricetta” della comunità politica, applicabile anche nelle comunità più grandi di uno stato-nazione. Accedendo a questa prospettiva, anche il concetto di nazionalismo si completa con una certa eterodossia; È usato come idea o teoria della comunità politica nazionale e continentale (nazione, nazionalismo – nazionalista; continente, continentale – continentalismo). La storia della comunità latinoamericana porta con sé gli elementi più importanti di una comunità politica immaginata. Spesso questi elementi condivisi, a livello continentale, hanno funzionato allo stesso livello e nelle stesse modalità in cui funziona il nazionalismo (lingua, sistemi educativi simili, statali, storie condivise, minacce istituzioni esterne come l’imperialismo, tra gli altri). In questo modo, assume centralità la storia recente dello sviluppo e dell’appropriazione ufficiale del concetto di “bolivarismo”. Si sostiene che questa appropriazione fa parte di un lungo e generale problema della sinistra periferica, che è prossima alla nazionalizzazione e a presentarla come parte di una storia nazionale che per loro avrebbe un elemento egualitario, progressista, rivoluzionario. Questa vecchia tradizione, radicata nel passato locale, in quanto “propria”, potrebbero, secondo loro, servire come base per la crescita di un’organizzazione sociale diversificata in futuro. Inoltre, si presenta come il concetto di “Socialismo del XXI Secolo” che emerge nel contesto venezuelano, in un rapporto (piuttosto) teso con la nozione più consolidata di Bolivarismo; e come la nozione di democrazia fosse articolata in modo del tutto particolare con quei due concetti. L’idea bolivariana si produce come centrale e si presenta come “universale” (come socialismo e democrazia) mentre si avvicina a sviluppare la versione propria dell’idea locale continentale. Ciò genera tensione e ha prodotto l’idea del Chavismo, in questo modo, l’interesse del popolo venezuelano e latinoamericano, è un ricco esempio della tensione tra “universale” e “particolare” nel pensiero della periferia, e della regola dei progetti locali passati e futuri.
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