Non categorizzato
Femminismo intersezionale nell’esempio di Manuela Sáenz
di ROBERTA TOFFEE CORDARO
“
Per te e per me
Secondo il filosofo Hermann Schmitz la filosofia (oggi più che mai) è quella disciplina che si interessa di dare ragione della comune sensazione di disagio che ognuno può provare nell’esperienza della propria vita associata. In quanto antipsicologista Schmitz è dell’avviso che, quando ci si sente inadeguati al contesto sociale nel quale pure siamo cresciuti e tentiamo di rifletterci, si corre il pericolo di farne un fatto già individuale o un fenomeno singolo identificabile. Come donna il mio disagio è stato in effetti oggetto di studio delle filosofie femministe, la cui tradizione occidentale (da Luce Irigaray a Judith Butler) comprende l’importanza che ha la relazione fondamentale fra “io” e “altro” nella costituzione dell’identità. Già dalla seconda ondata la filosofia femminista pone l’accento sul fatto che il processo di soggettivazione non avviene entro i confini egologici della propria esperienza di donna. L’archeologia del genere risiede in quella “archeologia del sapere” che altro non è che la nostra cultura: la definizione dei confini, tanto dei concetti quanto delle “patrie”, tanto dell’“essere umano” quanto del modo di percepire e di muovere il proprio corpo nel mondo.
È quanto riassume il sovversivo slogan femminista che afferma che “il personale è politico”: ciò che è “mio” non è definito ex nihilo nell’insieme delle categorie formali o “metafisiche”, ma si co-determina nell’insieme delle pratiche del mio “stare nel mondo”. Chi sono “io”, cosa faccio, cosa desidero? Sono domande cui ogni femminismo ha tentato di rispondere in modo originario rispetto alla norma delle società patriarcali: ripartendo dal concetto di “dualità”, di relazione e di essere-nel-mondo. Il cosiddetto “fallologocentrismo” non si limita, infatti, a definire l’inferiorità del “femminile” tramite un’azione coercitiva di subordinazione, ma si presenta come un principio che separa ciò che è fondamentalmente relato, in forza di una razionalizzazione “chiara e distinta”. Da queste premesse è nato, nella mia ricerca, l’interesse per i misunderstanding fra il linguaggio maschile e quello femminile, fra le diverse esperienze che però inevitabilmente coinvolgono una molteplicità di individui distinti, non solo per il genere.
Chi conosce un po’ la storia dei femminismi sa che di grande utilità nella dialettica femminista sono stati i cosiddetti “femminismo lesbico” e “femminismo nero”, i quali – attraversando la dicotomia fra maschile e femminile – rintracciano i legami fra le varie distinzioni, sessuali e di genere, di classe ed etniche. Nelle varie parti del mondo, tali “tipi” di femminismo hanno dato vita ad una ricerca molto più aperta alle differenze concrete interne, che oggi si definisce “femminismo intersezionale”. Col termine “intersezionalità” si sottolinea l’esigenza di individuare quegli spazi in cui la voce delle donne porta con sé una stratificazione molto più complessa di quella relativa al genere. Questa complicazione del legame fra le diverse minoranze non è nuova: apparteneva già a quel femminismo socialista della seconda ondata che nell’economia capitalista e nella gerarchia che essa opera fra produzione e riproduzione sociale rinviene la subordinazione delle donne. Ci si accorge che, profittando della realtà delle non-bianche, delle non-borghesi, legata all’economica dello spazio di “cura”, dell’assistenza e dell’ecologia (riproduzione sociale), si reitera un vero e proprio sfruttamento di questi corpi e delle loro forze. Restando ai margini del dominio pubblico ed esclusi dal rendiconto economico, dal PIL, questi settori della società offrono infatti il quadro della subordinazione e dello sfruttamento delle classi, del genere, delle etnie e di tutte le categorie cosiddette “oppresse”.
A dire il vero, ben prima delle socialiste degli anni Sessanta-Settanta, la critica delle condizioni delle donne si fa critica dell’organizzazione sociale con Flora Tristan, una femminista francese di origini peruviane della prima metà dell’Ottocento che nei suoi Promenades dans Londres (1840) e L’Union ouvrière (1843) anticipa i più noti scritti di Engels e di Marx (rispettivamente del 1845 e del 1848). In quest’ottica, la precarietà della donna è ricondotta non solo alla misoginia ma altresì allo sviluppo industriale che, in funzione d’interessi materiali e promuovendo uno spirito meccanicistico, opprime e sfrutta una categoria rispetto ad un’altra. Rispetto alle stesse “sezioni” (generalmente razza, classe, sesso e sessualità) alcune persone sono, di fatto, discriminate e non solo distinte da quello che possiamo definire un marcatore sociale (generalmente l’essere uomo bianco borghese eterosessuale). In tal senso, non è solo il metodo con cui la ricerca femminista tenta di risolvere le diseguaglianze a definire il “tipo” di femminismo, ma è l’analisi logica delle “proposizioni di genere” a sfidare la grammatica politica. Non a caso, il cuore di questo pensiero femminista si trova nelle prime rapide trasformazioni tecnologiche e industriali, insieme ambientali ed etiche, di primo Ottocento.
D’altro lato, dove i confini geografici naturali sono soppressi e ridefiniti dall’uomo o, meglio, dove i confini umani vengono definiti con la forza della retorica, dei codici etici o persino della metafisica, la potente forza rigeneratrice delle donne e del femminismo compromette ogni rigido schema, primo fra tutti quello fra Ragione e Sentimento. Una figura emblematica di questo “carattere femminile” è l’ecuadoriana Manuela Sáenz, combattente della causa ispanoamericana rivoluzionaria e indipendentista di prima metà Ottocento, nonché donna del “pueblo” e amante di Simón Bolívar. Membro dell’Ordine dei Cavaliere del Sole, Colonnella dell’Esercito Colombiano, Ministra di San Martìn in Perù e Capitana degli Ussari della Guardia, Manuela Sáenz è nota per la sua audacia politica, ma anche per la sua personale passione amorosa. Sulle prime, a seconda di chi guarda, la storia di Sáenz può far pensare che i due lati della sua vita si alternino; che la sua politica, aggressiva ed emancipata semplicemente si riversi nel rifiuto degli obblighi matrimoniali con l’inglese James de Thorne oppure che il suo amore sconfinato per Bolívar sia causa della ricerca e della lotta per la libertà e per l’indipendenza delle popolazioni indigene. Nel libro di Maddalena Celano, Manuela Sàenz: il femminismo rivoluzionario oltre Simón Bolívar[1], è evidente come Sáenz incarni in realtà una soggettività femminile del tutto estranea alla formalizzazione dei due dominî del pubblico e del privato. Come Antigone, ma ben oltre il mito, Sáenz si presenta come una figura sovversiva dell’ordine pubblico nella misura in cui sia nel pubblico sia nel privato ella prende posizione, dichiara le proprie intenzioni e i propri umori, senza temere o, meglio, sfidando apertamente le comuni logiche del proprio tempo.
Nella ricerca e nella narrazione di Celano si verifica in effetti un’assoluta coincidenza dei due lati e, di più, l’importanza dei rapporti personali nella vita politica, e viceversa. Si evidenzia, ad esempio, l’utilità delle «reti femminili di gossip per donne di classe alta, [delle] reti informative mediate dagli schiavi», dell’uso delle case private come luoghi politici e come saloni filosofici e letterari in cui ragionare sulle strategie e sulle teorie politiche. Si parla di queste strutture come veri e propri “motori”, più che come meri strumenti, che innestano quei cambiamenti sociali e politici significativi, i quali poi, come si dice, “passano alla Storia”, ovvero vengono considerati degni di essere registrati. Di più, nel caso di Sáenz il coinvolgimento nella causa libertaria non riguarda esclusivamente le cosiddette élite intellettuali e politiche, ma coinvolge le classi subalterne nella vita e nel disegno politico più ampi. Riporto un passo del libro che ben sintetizza questo primo punto:
L’idea libertaria già presente in Manuela la portò ad abbracciare la rivoluzione sociale. Le fece tradurre il pensiero in azione, combinando politica, ideologia e strategia militare. Comprese sin da subito che meticci, indios e neri avrebbero dovuto costituire la spina dorsale dell’indipendenza[2].
Nel libro emerge cioè come le reti sociali e le alleanze fra “diversi”, ciò che oggi viene comunemente chiamata “riproduzione sociale” (l’aspetto di cura e di mantenimento della ricchezza di una società nella sua eterogeneità) rendano la storia, non solo possibile, ma capace di spiegare i cambiamenti e i paradigmi assiologici e quindi di farne una vera Maestra di Vita. Le relazioni sociali, di amicizia e di amore non mitigano affatto la rilevanza delle sue cariche politiche, tutt’altro. Sáenz indossa gli abiti della guerriera indipendentista all’interno dello spazio della vita reale e concreta grazie ai rapporti con le sue schiave (poi liberate) Nathàn e Jonathans, con Rosita Campuzano (la compagna del generale San Martìn), col patriota venezuelano Mariscal Sucre, con il marito James de Thorne e ovviamente con il suo amante Simòn Bolivar. Nel libro si dedica grande spazio ai carteggi sulla propria condizione sentimentale, da cui emerge un rapporto coerente con la vita in generale: ella è autonoma e orgogliosa delle sue decisioni e al contempo gelosa, affezionata o distaccata e forse anche crudele con l’altro. Se confrontiamo due lettere di risposta al marito (col quale ebbe un matrimonio combinato) che esige che lei torni al tetto coniugale e all’amante che suggerisce di troncare la loro relazione perché lei conservi il suo onore di donna sposata, capiamo immediatamente come Sáenz incarni un modo nuovo e sovversivo di essere e di fare politica e di fare ed essere donna.
Questo modo di relazionarsi e di vivere il proprio tempo è un modo di esprimere la vita e quindi di fare la storia non più solo nella dimensione etica-formale, ma veramente corporea, affettiva ed estetica in senso lato, segnata efficacemente nelle parole tutt’altro che “platoniche”. Insieme e forse anche più di Bolivar, all’amore idealizzato, cortese, codificato e persino eticamente “ortodosso”, Sáenz preferisce un amore e un’amicizia che mettano sullo stesso piano le sicurezze morali e le vulnerabilità emotive. In tal senso, nella figura di Manuela Sáenz si rompe il confine fra il “porto sicuro” (dimora delle emozioni più intime e familiari) e il campo di battaglia (pubblico e aperto del conflitto eticamente codificato). Prendiamo ad esempio la lettera di risposta di Manuela al marito de Thorne:
Credete che io, dopo essere stata la prediletta di questo Generale, per sette anni e con la sicurezza di possedere il suo cuore, preferisca essere la donna del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, o della Sacra Trinità? […] Mi credete [solo] in parte degna di onore perché lui è il mio amante e non mio marito? Ah! Io non vivo delle apprensioni sociali inventate per tormentarci a vicenda. […] L’amore per voi è un’abitudine senza piacere, una conversazione senza grazia, un lento incedere, salutare con riverenza, alzarsi e sedersi con attenzione, la battuta senza risata; queste sono formalità metafisiche. […] Dagli inglesi ho imparato il concetto di tirannia con le donne, benché voi non lo siete stato con me, seppur più geloso di un portoghese. Questo io non lo voglio. Non ho buon gusto?[3]
Così, con la stessa coerenza, scrive al Generale Bolívar:
Signor mio, ho ricevuto la vostra pregiata missiva che infastidisce il mio animo per la brevità dello scritto, così come per la vostra intenzione di interrompere questa relazione d’amicizia che ci unisce almeno nel comune interesse di vederla trionfare in tutto ciò che si propone […] Voi mi parlate della morale, della società. Eppure sapete bene che tutto questo è ipocrita senza nessun altra ambizione che quella di compiacere i miserabili egoisti che ci sono al mondo […] Secondo i dettami di quella che voi chiamate morale, dovrò continuare allora a sacrificarmi perché ho commesso l’errore di pensare di amare per sempre la persona con cui mi sposai? Voi mio signore non vi stancate mai di ripeterlo continuamente: “Il mondo cambia, l’Europa si trasforma, l’America anche… Noi viviamo in America!” […] Non condividiamo la stessa gloria? Io non tollero pettegolezzi, che comunque non guastano il mio sonno. Tuttavia, sono una donna piena di dignità per l’onore di sapermi patriota e vostra amante[4].
In sintesi, descritta attraverso le relazioni che Sáenz intrattiene sia nel contesto della lotta politica che in quello civile quotidiano, la personalità femminile descritta da Celano è una manifestazione di un teoria femminista particolare. Mentre, come tutte le teorie filosofiche femministe, indica nella relazione con gli altri la sede del processo di soggettivazione, Sáenz riporta nella teoria politica femminista la rilevanza dell’amicizia ed evidentemente dell’amore. Come afferma Celano:
Sáenz avrebbe […] sviluppato una vocazione alternativa a quella della virtù domestica, che si espresse nella sua permanente influenza politica sulle nuove repubbliche, […] una riconfigurazione delle sfere pubbliche e private […]. Tale spazio condivide molte caratteristiche con la definizione di società civile di Jurgen Habermas: cioè un campo intermedio tra lo Stato e la famiglia, un’arena in cui le femministe chiesero con maggiore insistenza la presenza delle donne.[5]
È uno spazio che in questo libro (nella vita di Sáenz) è politico ed estetico; sicuro e stabile e insieme carico di potenziale trasformativo, pregno di una istintualità capace di sovvertire l’indole alla cristallizzazione di uno status quo. Questo spazio non riguarda “solo” il ruolo delle donne nella sfera pubblica, ma comprende ogni minoranza relativamente stabile, la quale per forza di cose esperisce una relazione sé-altro diversa da quella dominante.
Sul piano culturale, inoltre, questo posizionamento femminista sfida la lettura e la scrittura di quella storia politica tradizionalmente attratta dalle gesta e dalle attività belliche, politiche-dirigenziali (a forte rappresentanza maschile) e oggi forse anche dall’economia mondiale e delle transazioni finanziarie che avvengono nel segno della “neutralità affettiva”. Già verso metà del libro si fa riferimento al doppio ruolo di Manuela Sáenz all’interno del conflitto fra “vecchio” e “nuovo”. Come Libertadora ella è simbolo del passaggio da una logica di dominio sull’identità ad una di interdipendenza della rivoluzione e della lotta per l’indipendenza, espresso attraverso il concetto di “Patria Grande”. Come donna amica, amante, moglie e compagna, ella lega a doppio filo emancipazione personale e identità collettiva e identità individuale e emancipazione collettiva, superando il concetto stesso di Patria Grande. Esso infatti
riassume sinteticamente l’integrazione, il sentimento sociale che racchiude il pensiero di un’epoca […], [un sistema di pensiero che entra in conflitto con quella della] affermazione della propria identità contro l’aggressore esterno, anche se in questa rappresentazione concetti come neoliberismo, capitalismo, globalizzazione sono confusi indiscriminatamente.[6]
È qui che Manuela gioca il ruolo decisivo: Sáenz mostra qualcosa di più di quella Patria Grande che Celano descrive come «utopico riferimento ucronico che interpreta le diverse visioni di liberazione e d’indipendenza [di] chi combatte per i valori “nuovi” dell’uomo sul pianeta»[7]. Sposando la causa indipendentista, ma filtrandola attraverso la sua vita (insieme pubblica e privata, passionale), gli ideali si fanno prima ancora di essere definiti come ideali; così anche il senso di ogni femminismo trova posto nella complessità della vita propria.
Nella prospettiva femminista, storica e filosofica tracciata dall’autrice attraverso la figura di Manuela Sáenz, si tratta, infatti, di dare corpo all’identità, nelle relazioni appassionate. Di più, si contrappone al paradigma tradizionale del cogito ergo sum il “sono perché sei”, perché tutto il resto esiste; un paradigma affrontato, come spiega Celano, nel principio dell’Ubuntu sudafricano e – come sappiamo – anche all’interno dell’ecofemminismo e in generale del femminismo socialista contemporaneo. Con la “modernità” si va delineando così il superamento della dicotomia fra produzione e riproduzione sociale, fra economia e lavoro di cura o, potremmo dire in modo forse un pó provocatorio, fra la nota “mano invisibile” nell’economia di Adam Smith e quelli che nella postfazione del libro sono chiamati “motori invisibili”. Questi ultimi sono definiti «intuizioni […] che danno sostanza agli eventi storici»[8] e rappresentano, a mio parere, un punto di vista filosofico veramente originario, perché – come si dice in postfazione – ci costringe «a comprendere il nesso esistente tra i fatti storici, la dimensione fenomenica, e il proposito da cui essi prendono [e danno] forma»[9] all’essere umano, la cui identità è solo quella di «progetto in manifestazione»[10].
Sul piano filosofico femminista ciò costituirebbe un’ulteriore strumento di ricerca di quegli studi di archeologia, di geografia e di estetica femministe sugli spazi (storici e geografici) occupati dalle donne. La storia dello spazio in filosofia è, in effetti, una storia discontinua e tendenzialmente distinta nelle sue componenti ideali. Mi chiedo, allora, cosa succederebbe se ricostruissimo la storia “materiale” delle donne, attraverso, ad esempio, quella disciplina che prende il nome di “Gender Archeology”[11] o attraverso la “Geografia femminista”[12]. Di più: a partire dalla documentazione sui personaggi femminili che hanno di fatto contribuito a costruire e a sostenere i cambiamenti storici e paradigmatici nelle diverse epoche fino ad oggi, non otterremmo così un modo nuovo di orientarci nella storia e nella politica, dandoci la possibilità di disegnare nuovi “punti di fuga”? Non sarebbe già questo un modo – non solo di rendere conto del nostro proprio disagio ma anche – di praticare la filosofia? Di riappropriarci di quelle agorà, le quali non erano solo gli spazi virtuali di un confronto, ma spazi fisici che ci costringono a confrontarci con le persone, fatte di odori, voci, temperature in cui profondamente ci riconosciamo?
Qualcuno/a solleverà un sopracciglio e storcerà il naso all’idea di chiamare “protofemminista” una donna che ha concesso tutto il suo amore al suo popolo quanto ad un uomo, abituati forse alle grandi donne della storia che mostrano il loro amore attraverso la prassi della verginità, della preservazione e del sacrificio per l’altro. Ma è in questa sovversione di paradigma che consiste l’apporto femminista di Sáenz, estremamente attuale: quello dell’ideologia passionale come motore di rivoluzione di ogni decadenza etica o boriosità “metafisica”, che all’amore “contabile” e al rispetto della “distanza di sicurezza” preferisce un amore carnale capace di condurre se stessa, le altre e tutte le minoranze in una storia di liberazione.
[1] M. Celano, Manuela Sàenz: il femminismo rivoluzionario oltre Simón Bolívar, Aras Edizioni, Fano, 2018
[2] Ivi, p. 43.
[3] Ivi, p. 240.
[4] Ivi, p. 183.
[5] Ivi, p. 113.
[6] Ivi, p. 134.
[7] Ivi, p. 135.
[8] Ivi, p. 245.
[9] Ivi, p. 73.
[10] Ivi, p. 247.
[11] Vedi, ad esempio, M. L. Stig Sørensen, Gender Archeology, Wiley, Hoboken, 2000.
[12] Vedi, ad esempio, L. McDowell, J. Sharp, Space, Gender, Knowledge, Routledge, London, 1997.