15 Dicembre 2025
Donne Vive: la violenza non è “deviazione”, è struttura — e gli uomini devono entrare nella lotta

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera
Nelle strade del Brasile, domenica 7 dicembre 2025, migliaia di donne sono tornate a dire l’ovvio che il potere insiste nell’ignorare: basta con i femminicidi. Le manifestazioni nazionali hanno denunciato una realtà che non può più essere ridotta a fredde statistiche — e hanno rivendicato presenza dello Stato, politiche pubbliche e responsabilizzazione reale degli aggressori.
In Italia, il grido è lo stesso. Nel 2024, il paese ha registrato 106 femminicidi — uno ogni tre giorni. Di questi, 62 sono stati commessi da partner o ex-partner. L’assassinio brutale di Giulia Cecchettin nel novembre 2023, una studentessa di 22 anni uccisa dall’ex-fidanzato una settimana prima della sua laurea, ha provocato proteste massive sotto lo slogan Non Una di Meno. Più di 10.000 persone hanno partecipato al suo funerale. Nel novembre 2025, il parlamento italiano ha approvato una legge che rende il femminicidio un reato specifico punibile con l’ergastolo — ma l’opposizione ha avvertito che la risposta puramente punitiva tralascia le cause culturali ed economiche.
Quello che queste mobilitazioni — in Brasile, in Italia, nel mondo — espongono è semplice e brutale: la violenza contro le donne non è un incidente della vita privata. È un fenomeno strutturale, attraversato da disuguaglianza, razzismo, precarizzazione e una cultura che naturalizza il possesso. E qui non c’è modo di sfuggire al centro del problema: nella maggior parte dei casi, la violenza è praticata da partner, fidanzati, ex-compagni — dentro casa, dentro l’intimità, nel luogo dove dovrebbe esserci cura.
La domanda che persiste: perché tanto odio verso le donne?
Perché l’autonomia femminile rompe un patto antico — il patto del controllo. Nelle società patriarcali, il corpo della donna è trattato come territorio amministrabile: dalla famiglia, dalla morale pubblica, da certe leadership religiose, dallo Stato. Quando le donne si emancipano — studiano, lavorano, divorziano, denunciano abusi, rifiutano la sottomissione — cresce la reazione violenta. È una controffensiva sociale, un backlash.
Elena Cecchettin, sorella di Giulia, ha rifiutato di chiamare l’assassino mostro. Lo ha descritto come figlio sano del patriarcato — qualcuno che la società ha prodotto e per cui deve assumersi la responsabilità. Questo rifiuto di trasformare gli aggressori in eccezioni è cruciale: non sono anomalie, sono prodotti di una cultura che insegna agli uomini a dominare e alle donne a sopportare.
Gli organismi internazionali stanno avvertendo proprio di questo: c’è una reazione organizzata contro i diritti delle donne e, in molti paesi, la misoginia ha smesso di essere sottoprodotto ed è diventata strumento politico. Nel 2024, circa un quarto dei paesi ha riportato regressioni nei diritti delle donne e nell’uguaglianza di genere.
L’ipocrisia “pro-vita” e il corpo come campo di battaglia
Questo backlash si esprime con nitidezza nell’ipocrisia che dice di difendere la vita, ma solo quando serve a controllare il corpo femminile. Si difende il feto con fervore, mentre si accetta fame, abbandono, guerra, distruzione di politiche sociali e precarizzazione del lavoro — uno scenario in cui le donne continuano ad essere sovrarappresentate come capifamiglia e uniche sostenitrici. Il moralismo diventa disciplina: proibisce, colpevolizza, umilia, obbliga — e poi abbandona.
Conservatorismo in crescita, violenza in permesso
Questa escalation non avviene nel vuoto. Si nutre dell’avanzata del conservatorismo e di agende anti-gender che attaccano l’educazione sessuale, delegittimano il dibattito sui diritti e cercano di ricollocare le donne nel posto dell’obbedienza. Questo ambiente non crea da solo l’aggressore — ma aumenta il permesso sociale, indebolisce le reti di protezione e spinge il problema verso il silenzio.
In Italia, il governo Meloni ha proposto una legge che proibisce l’educazione sessuale nelle scuole elementari e richiede consenso parentale esplicito nelle scuole medie — precisamente quando gli esperti affermano che questa educazione è essenziale per prevenire la violenza e insegnare il consenso. Lo stesso Ministro dell’Istruzione ha dichiarato che il patriarcato non esiste più e ha attribuito la violenza all’immigrazione illegale — una narrativa che nega la realtà e devia il focus dalle cause strutturali.
E le istituzioni religiose?
Qui dobbiamo essere rigorose: le istituzioni religiose — siano chiese pentecostali in Brasile o la Chiesa Cattolica in Italia — non sono causa automatica della violenza. Molte persone trovano in queste comunità accoglienza, appartenenza e sostegno materiale. Il punto è un altro: in contesti di conservatorismo aggressivo, certi settori religiosi possono funzionare come vettori che rafforzano norme patriarcali — quando predicano sottomissione femminile, colpevolizzano la vittima, fanno pressione per il mantenimento della famiglia a qualsiasi costo e scoraggiano la denuncia.
Durante le proteste dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, uno striscione esposto a Roma dichiarava: Il Vaticano è la spina dorsale del patriarcato. Sebbene Papa Francesco abbia parlato contro la violenza, la Chiesa Cattolica ha storicamente perpetuato strutture che subordinano le donne — dal divieto del sacerdozio femminile alle dottrine su divorzio e contraccezione che imprigionano le donne in relazioni violente. Ricerche recenti mostrano questa ambivalenza: la fede può essere rete di sostegno, ma determinate interpretazioni e pratiche comunitarie possono imprigionare le donne in relazioni violente o prolungare la sofferenza attraverso il silenzio e la colpa.
La violenza è anche censura: l’attacco nel mondo digitale
C’è ancora un fronte contemporaneo che non può essere sottovalutato: la misoginia digitale. Rapporti recenti evidenziano l’escalation di violenza online contro giornaliste, attiviste e difensore dei diritti, con connessione crescente con danni nel mondo reale — parte di un tentativo di espellere le donne dallo spazio pubblico.
E cosa c’entrano gli uomini?
Tutto. Se la violenza è prodotta in un sistema che educa gli uomini a dominare e le donne a sopportare, allora gli uomini devono entrare nella lotta — non come alleati di discorso, ma come agenti di interruzione. Questo significa fermare battute misogine e umiliazioni tra amici (questo è addestramento culturale), riconoscere controllo e persecuzione come violenza e non come gelosia, responsabilizzare gli aggressori senza relativizzare (“ma è un lavoratore”, ma è un buon padre), sostenere reti di protezione e politiche pubbliche, e dividere cura e lavoro domestico come parte della prevenzione, perché l’autonomia salva vite.
In Brasile, la risposta istituzionale recente include misure di protezione più forti, come monitoraggio elettronico degli aggressori e restrizioni più dure — una pressione conquistata, in parte, dall’indignazione pubblica. In Italia, oltre alla criminalizzazione del femminicidio, il governo Meloni afferma di aver raddoppiato i fondi per i centri di sostegno. Ma legge senza struttura diventa promessa. Senza rifugio, reddito, salute mentale, giustizia rapida e prevenzione, il ciclo continua.
Un mondo che uccide le donne è un mondo in decomposizione
Sul piano globale, i numeri sono un allarme permanente: nel 2024, le stime dell’ONU indicano circa 50.000 donne e ragazze uccise da partner intimi o familiari — una ogni 10 minuti, con livelli che non scendono come dovrebbero. L’OMS sottolinea anche che quasi 1 donna su 3 ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita — e il progresso per ridurre questo è troppo lento.
Per questo, la lotta contro la violenza di genere non è agenda identitaria: è lotta per vita concreta, per giustizia sociale, per democrazia reale. O gli uomini entrano in questa lotta — o restano complici, per omissione, convenienza e comfort.
Nota editoriale: Evitiamo di usare “America” come sinonimo degli Stati Uniti. “America” è un continente e una pluralità di popoli; ridurre il termine a un paese è anche imperialismo simbolico.

