13 Luglio 2025
Il femminile esiliato, sfruttato e violato in nome della “sacra” obbedienza: un problema tipicamente “cattolico
Riconoscere la vocazione sacerdotale delle donne significa riparare una frattura antica, sanare una giustizia ferita, liberare il Vangelo dalla prigione del patriarcato sacrale.

Di Maddalena Celano
Preambolo chiarificatore
Sebbene sia cresciuta in una famiglia cattolica, non mi sono mai sentita realmente parte di quella tradizione. Fin dalla giovane età ho percepito il cattolicesimo non come un’eredità spirituale vivente, ma come un sistema istituzionale chiuso, fortemente escludente, subordinato ai poteri costituiti, e intriso di un patriarcato clericale che più che guidare, soffoca. Un’autorità che non forma, ma rammollisce, che non accompagna, ma schiaccia.
Essendo donna, mi è stato subito chiaro – e “chiarito” senza troppa delicatezza, anzi con un certo disprezzo paludato di tono paternalistico – che questa religione non avrebbe mai potuto offrirmi spazi veri di espressione personale o di sviluppo culturale. Tutto ciò che potevo aspirare a essere, restando dentro la cornice cattolica, era ausiliaria dell’uomo, mai soggetto pieno della fede. I ruoli proposti erano sempre marginali, oblativi, servili: educatrice, catechista, perpetua, moglie devota, suora silenziosa. Sempre funzionali a un ordine maschile, sempre subordinate a un clero intoccabile e autoreferenziale.
Da ragazzina, le uniche strade che mi venivano suggerite erano il matrimonio eterosessuale e riproduttivo – che non ho mai contratto, senza alcun rammarico – o missioni educative e caritative profondamente inadatte alle mie inclinazioni intellettuali e alle mie ambizioni esistenziali. Non trovavo ascolto, né dignità, né orizzonti. Solo obbedienza e compiacenza. La mia sete di senso, di pensiero critico, di spiritualità incarnata nella storia e nelle lotte del presente, veniva sistematicamente zittita o deviata.
Vorrei fosse chiaro che non sto parlando dell’Islam, né di generici “modelli religiosi patriarcali”: sto parlando del cattolicesimo romano, istituzionalizzato, clericalizzato, eurocentrico. Quello che pretende di parlare “a nome di tutte e tutti” ma che esclude sistematicamente le donne dai sacramenti, dai ministeri, dal pensiero teologico riconosciuto. Quello che, in nome dell’obbedienza, zittisce il dissenso. Quello che ha fatto del corpo femminile un simbolo muto, usato per parlare d’altro: la verginità, la maternità, la tentazione, la devozione… ma mai la parola, la voce, la guida.
Paradossalmente, in altri contesti religiosi – come l’Islam – pur non condividendo molte delle pratiche separatiste, ho trovato donne che, grazie a una spiritualità femminile autonoma, avevano costruito spazi di agibilità simbolica, culturale e comunitaria che nel cattolicesimo sono ancora impensabili. Sheikhat, predicatrici, studiose, guide spirituali: figure femminili rispettate, riconosciute, persino consultate dagli uomini. Cosa che la Chiesa cattolica si rifiuta ostinatamente di fare, nel nome di una tradizione manipolata per conservare un dominio di casta.
Non ho lasciato il cattolicesimo per capriccio. L’ho lasciato per onestà intellettuale e per dignità personale. E continuo a parlarne perché non mi rassegno all’idea che la fede debba essere un luogo di esclusione. Parlarne è un atto di libertà, ma anche un gesto d’amore verso tutte le donne che ancora si sentono colpevoli per non “essere abbastanza buone” per la Chiesa. Non sono loro a dover cambiare. È la Chiesa che deve convertirsi. La mia è, e continua ad essere, una ricerca radicale di conoscenza, non di fede. Una ricerca che non trova accoglienza né legittimità in una Chiesa Cattolica istituzionale che continua a escludere sistematicamente le donne dallo spazio sacramentale, decisionale e simbolico. Mi identifico molto più nell’orizzonte gnostico (come ricerca dell’ universalità simbolica della dimensione “sacra”), dove il sapere e il dialogo con “i diversi” (per provenienza, cultura e fede) è strumento di liberazione interiore e spirituale, e non di controllo o conformismo.
È significativo notare che atteggiamenti simili di esclusione e infantilizzazione non li ho mai sperimentati nei confronti di esponenti di altre religioni. Per quanto patriarcali possano essere considerate alcune tradizioni religiose, ho incontrato nel mondo protestante – in particolare in quello europeo e storico – una teologia e una prassi molto più orientate all’uguaglianza e alla promozione dei diritti umani (anche dei diritti delle donne); nel giudaismo, una valorizzazione del pensiero teologico e filosofico femminile nelle sue diverse correnti; nell’Islam, infine, ho conosciuto teologhe, studiose di Sharīʿa e pensatrici capaci di affermarsi come voci autorevoli, senza essere subordinate ai teologi maschi.
Paradossalmente, proprio il fatto che nell’Islam vi sia una distinzione sessuale marcata (discutibile/condivisibile o meno: non sto fornendo giudizi ma osservazioni) – obbligo di ḥijāb, spazi separati, regole rigide di interazione – crea spesso uno spazio relazionale più autentico e rispettoso tra donne e uomini. Il separatismo sessuale, anziché tradursi in subordinazione, ha favorito nell’ Islam la nascita di autorevoli figure femminili con cui altre donne tendono naturalmente a identificarsi, a confidarsi e da cui scelgono di farsi guidare (teologhe, sapienti e donne che guidano la preghiera per le altre donne). Ovviamente, quando si parla di Islam si parla di una realtà variegata e plurale (come il protestantesimo nel cristianesimo): quindi mi riferisco alle tradizioni antiche maggioritarie, maggiormente diffuse, non alle sette estremiste minoritarie (spesso finanziate da nazioni “occidentali”). In questo scenario, gli uomini teologi musulmani sono spesso portati a riconoscere e rispettare le interlocutrici femminili, proprio perché queste si muovono all’interno di un linguaggio teologico condiviso e separato, ma non affatto subalterno.
Il cattolicesimo, al contrario, pur escludendo sistematicamente le donne dagli spazi decisionali e sacramentali, le espone fortemente sul piano sociale e simbolico, spesso senza offrire né protezioni né garanzie. L’invito rivolto alle donne cattoliche a “essere presenti” nella vita della comunità – leggere in chiesa, insegnare catechismo, animare la liturgia, occuparsi della carità – si accompagna spesso a una retorica che esalta la “vocazione al servizio” e la “speciale sensibilità femminile”, sempre in via del tutto gratuita. Tuttavia, questa presenza rimane strutturalmente priva di potere, di rappresentanza istituzionale e di autodeterminazione. Le donne sono invitate a “esserci”, ma non a decidere. A “nutrire la comunità”, ma non a guidarla. A “servire”, ma mai a presiedere.
Questa esposizione – non accompagnata da riconoscimenti sacramentali, da autorità spirituale o da garanzie concrete di protezione – le rende estremamente vulnerabili, non solo simbolicamente o moralmente, ma anche fisicamente. Le donne che vivono la loro fede in contesti ecclesiali misti, senza il filtro di spazi propri, né figure femminili autorevoli di riferimento, sono spesso esposte agli sguardi, agli abusi di potere e, nei casi peggiori, a veri e propri appetiti sessuali maschili, camuffati da paternità spirituale o guida pastorale. La storia recente della Chiesa cattolica è purtroppo segnata da numerosi scandali che lo dimostrano.
Nel mondo islamico – pur con i limiti che in molti casi non possiamo né condividere né accettare – la questione è affrontata in modo radicalmente diverso. Il modello separatista, che istituisce ambienti religiosi radicalmente distinti per uomini e donne, garantisce quantomeno alle donne spazi propri e forme di guida femminile: sheikhe, studiose, murshidat, predicatrici e formatrici, spesso molto rispettate all’interno delle comunità. Anche nei contesti più conservatori, le donne musulmane hanno accesso a figure spirituali femminili che le accompagnano, le comprendono, le tutelano. Questo crea un’ecologia relazionale più sicura, dove l’autorità spirituale non è monopolio del maschile, e la donna non è ridotta a ornamento servizievole dell’assemblea.
In ambito cattolico, invece, la promozione della “presenza femminile” si sviluppa troppo spesso in assenza di una riflessione seria sul potere, sulla vulnerabilità e sulle dinamiche di dominio. Le donne sono presenti, sì, ma nella precarietà: senza garanzie, senza voce in capitolo, senza possibilità di difendersi da contesti ambigui. Più che una partecipazione, questa è una esposizione pericolosa – soprattutto per le donne più giovani, più devote o più fragili. Senza una reale riforma ecclesiologica, che includa la sacralità del femminile anche nei ministeri e nei carismi di governo, questa situazione non potrà che perpetuarsi.
Paradossalmente, proprio da quei mondi così spesso “satanizzati” dal discorso dominante cattolico, ho ricevuto – da donna – ascolto, stima e riconoscimento.
Questa riflessione nasce dunque da una lunga esperienza personale e da uno studio approfondito. Non è una provocazione: è un atto di onestà intellettuale e di riflessione critica che desidero condividere con l’intento di arricchire il dibattito pubblico e culturale su un tema che ci riguarda tutte e tutti. Non mi interessa affatto la Religione Cattolico Romana come “fedele”. Ripeto che non sento affatto di essere membro di questa comunità, pur essendo formalmente battezzata. Tantomeno mi interessano le sue dinamiche e il suo dibattito teologico all’ interno, trattandosi di una religione che non ho mai condiviso in pieno (nella pratica e nei principi). La mia è un’osservazione “laica” e puramente sociologica, che intende far luce su un fenomeno simbolico che, purtroppo, si riverbera anche nella dimensione sociale e politica. Se il fenomeno fosse puramentre “religioso” e “spirituale”, senza riverberi politici e sociali, sarebbe un problema innoquo e secondario. Purtroppo sappiamo perfettamente che non lo è affatto!
Un dogma che non lo è
L’affermazione contenuta nella Ordinatio Sacerdotalis (1994), secondo cui “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”, non è mai stata proclamata come dogma infallibile. Nonostante alcuni ambienti ecclesiastici tendano a trattarla come tale, essa non soddisfa i criteri canonici richiesti per l’infallibilità ex cathedra, come stabiliti dal Concilio Vaticano I. Numerosi teologi e teologhe cattolici – tra cui Elisabeth Schüssler Fiorenza, Lavinia Byrne e Jacques Pohier – hanno messo in discussione sia la presunta infallibilità di questo documento, sia la sua coerenza con il messaggio evangelico.
L’argomento ricorrente, secondo cui il sacerdote debba “rappresentare visibilmente Cristo uomo”, risulta teologicamente fragile e filosoficamente riduttivo. Cristo, nella sua incarnazione, ha assunto la natura umana nella sua totalità, non un genere in contrapposizione all’altro. Legare la validità sacramentale all’anatomia maschile riduce il mistero dell’incarnazione a una questione biologica, contraddicendo la comprensione sacramentale della trans-significazione e della trasfigurazione spirituale. L’identificazione sacramentale, infatti, non richiede una somiglianza fisica o sessuata, ma una conformazione interiore al Cristo vivente.
Maria non è un alibi
Nel dibattito sull’accesso delle donne al sacerdozio cattolico, il riferimento a Maria – la madre di Gesù – viene spesso utilizzato in modo retorico e selettivo. Si sostiene: “Neppure Maria, la donna più perfetta, fu apostola o sacerdotessa. Se Dio avesse voluto ordinare una donna, avrebbe scelto Lei.” Questo tipo di argomentazione è profondamente circolare e teologicamente debole.
In primo luogo, l’assenza di Maria dal novero dei Dodici non può essere usata come argomento normativo, altrimenti si dovrebbe concludere, coerentemente, che nessun uomo non ebreo, nessun celibe, nessuno privo di contatto diretto con Gesù storico potrebbe oggi accedere all’ordinazione. La storia della Chiesa è invece fatta di sviluppi, reinterpretazioni, aperture progressivamente ispirate dallo Spirito. Se si prendesse sul serio questo tipo di ragionamento, la Chiesa non si sarebbe mai aperta nemmeno al ministero dei gentili.
In secondo luogo, usare Maria come “icona muta” per giustificare la sottomissione femminile è un tradimento del suo significato evangelico più profondo. Maria è presentata nei Vangeli come protagonista coraggiosa della storia della salvezza: accoglie la Parola in libertà, interpella l’angelo, canta un Magnificat dirompente e sovversivo (“ha rovesciato i potenti dai troni…”), interviene attivamente alle nozze di Cana, si mantiene presente sotto la croce quando gli apostoli fuggono. Ridurla a simbolo passivo e silenzioso significa svuotarla del suo autentico ruolo di discepola radicale e donna messianica.
Il fatto che Maria non fosse apostola o sacerdotessa non ha impedito alle donne, nei secoli, di essere teologhe, mistiche, fondatrici, catechiste, predicatrici, missionarie, studiose e persino guide spirituali di papi e vescovi. L’argomento, dunque, si smentisce da solo: se il silenzio istituzionale su Maria fosse vincolante, anche tutte queste funzioni sarebbero da considerarsi improprie.
Il vero problema è che, nella teologia ufficiale, la donna viene sistematicamente simbolizzata, idealizzata, spiritualizzata, ma mai autorizzata. Maria, infatti, è sempre “figura della Chiesa”, “arca dell’alleanza”, “madre di Dio”, ma mai modello ministeriale. Il suo corpo è esaltato come tempio, ma non abilitato all’altare. Questo uso simbolico del femminile consente alla Chiesa di parlare continuamente “delle donne”, senza parlare con le donne e, soprattutto, senza dare loro potere. È una femminilità sacralizzata, ma disabilitata.
Così Maria, anziché essere una forza di liberazione, diventa un alibi perfetto: giustifica l’esclusione proprio perché è “troppo” perfetta. L’esaltazione di Maria, slegata da una reale valorizzazione ecclesiale della donna concreta, non è segno di amore: è il paravento elegante della subordinazione.
Una discriminazione sistemica
La promozione di una discriminazione simbolica sistemica travestita da spiritualità
Affermare che le donne hanno “pari dignità” ma non possono accedere al sacerdozio è una contraddizione logica e teologica. È come dire: “sei uguale, ma non puoi rappresentare Cristo, né presiedere l’Eucaristia, né guidare una comunità di credenti”. In altre parole, sei “uguale”, ma non nel corpo, non nella missione, non nel potere sacro. Questa dissonanza tra parole e fatti non è amore per la donna, né rispetto della differenza: è clericalismo patriarcale mascherato da teologia.
Quando una Chiesa ribadisce la “pari dignità battesimale” delle donne, ma le esclude sistematicamente dai ruoli decisionali e sacramentali, essa perpetua un modello in cui la donna può solo servire, mai presiedere; può nutrire, non insegnare; può seguire, non guidare. La retorica dell’accoglienza, della cura, della fecondità spirituale, della maternità mistica – per quanto bella – viene così impiegata per spiritualizzare la subordinazione, per rendere poetica e sacra una gerarchia ingiusta.
Questa è discriminazione sistemica: non è un episodio isolato o una svista storica, ma una struttura consolidata che si giustifica appellandosi alla Tradizione, ai Vangeli letti selettivamente, al simbolismo sessuato e a un’antropologia della “differenza complementare” che relega la donna a un’alterità permanente. È la stessa logica che, per secoli, ha tenuto le donne fuori dalle aule universitarie, dalle cattedre teologiche, dai pulpiti. Oggi, questa esclusione sopravvive nei luoghi più sacri e centrali: l’altare e il potere sacramentale.
Una Chiesa che parla alle donne solo per esaltare la loro “capacità di accoglienza”, il “genio femminile”, la “fecondità spirituale” – ma che le esclude de facto da ogni autorità ministeriale – non è madre, è matrigna. Pretende obbedienza, ma non ascolta. Pretende servizio, ma non riconosce soggettività. È una madre che accoglie i figli maschi nella stanza del potere, e lascia le figlie nel corridoio, a guardare attraverso la porta.
Il vero scandalo non è solo l’assenza delle donne nel sacerdozio: è il fatto che questa assenza venga teologicamente naturalizzata, eternizzata, fatta passare per volontà divina e non per scelta storica, culturale, contestuale. Ma Dio non discrimina: è la Chiesa umana, storica, gerarchica che lo fa, e poi attribuisce a Dio ciò che è in realtà una costruzione maschile del sacro.
Riconoscere questa realtà non significa attaccare la Chiesa, ma amarla con verità. Significa praticare quella parresia evangelica che denuncia l’ipocrisia e invoca giustizia. Come ci ricorda il Vangelo, “i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi” – ma, finché non si ascolteranno davvero le donne, resteremo prigionieri di un ordine rovesciato solo a parole.
Senza le donne, la Chiesa muore
Una Chiesa che esclude sistematicamente le donne dall’autorità sacramentale è una Chiesa che si condanna all’anemia spirituale e all’irrilevanza sociale. Le donne costituiscono la maggioranza assoluta dei battezzati, delle catechiste, delle operatrici pastorali, delle animatrici liturgiche e delle missionarie. Sono loro a tenere in vita le parrocchie, le comunità, gli oratori, le opere di carità, l’educazione alla fede nelle famiglie. Eppure, paradossalmente, sono le uniche ad essere escluse dal cuore pulsante della vita ecclesiale: il ministero ordinato.
Questo squilibrio è insostenibile non solo sul piano etico, ma anche su quello ecclesiologico e antropologico. Come può una comunità che si proclama “corpo di Cristo” escludere proprio metà del corpo? Come può annunciare la buona notizia della liberazione, se continua a perpetuare strutture di subordinazione basate sul sesso biologico?
L’esclusione delle donne dai ministeri ordinati non è solo ingiusta: è scandalosa per le nuove generazioni. Sempre più ragazze – e anche molti ragazzi – vedono nella struttura della Chiesa cattolica lo specchio di un patriarcato rigido e fossilizzato, incapace di ascoltare la vita, la storia, la profezia. Si parla di “segni dei tempi”, ma si ignorano proprio i più evidenti: la richiesta crescente di giustizia di genere, di pari accesso, di riconoscimento vocazionale per tutti i battezzati, senza discriminazioni.
Una Chiesa che parla di sinodalità ma mantiene il sacerdozio come privilegio maschile rischia di essere percepita come incoerente, autoreferenziale, anacronistica. Non basta valorizzare le donne “dietro le quinte”, né offrire loro ruoli educativi o amministrativi. Il punto cruciale è la sacramentalità: lì dove si consacra, si predica ufficialmente, si presiede e si governa. Lì le donne non ci sono. E finché non ci saranno, ogni discorso sulla “pari dignità” suonerà vuoto, ipocrita, paternalista.
Una Chiesa senza voce femminile sacramentale non è madre, ma istituzione mutilata. È una Chiesa che ha paura della libertà femminile, che non si fida della carne delle donne come luogo di rivelazione e mediazione divina. Ma se lo Spirito Santo soffia dove vuole, come possiamo continuare a negare che esso possa chiamare anche una donna a presiedere l’Eucaristia? Chi può mettere un limite a Dio?
Il futuro della Chiesa dipende dalla sua capacità di accogliere pienamente le donne non solo come fedeli, ma come ministri del Vangelo. Senza questo riconoscimento, il corpo ecclesiale resterà zoppo, e la sua testimonianza nel mondo sempre più inascoltata.
Il vero problema è il clericalismo
Il rifiuto di ammettere le donne al sacerdozio non è fondato su una reale impossibilità teologica, ma su una visione deformata del ministero: quella che lo riduce a privilegio identitario, riservato a un’élite maschile, celibe, e sacralizzata. In questa prospettiva, il sacerdozio non è più servizio, ma potere separato; non è più mediazione comunitaria, ma appartenenza esclusiva. Se viene difeso come un baluardo della mascolinità sacrale, significa che il problema non sono le donne: il problema è il potere.
Il clericalismo è la mentalità per cui chi è ordinato possiede una “dignità superiore”, un accesso privilegiato alla grazia, alla verità e alla guida della comunità. È una patologia spirituale che confonde la vocazione con la superiorità, il ministero con il dominio, la liturgia con la distanza. È il sistema attraverso cui, per secoli, si è identificata la grazia con il maschio, l’autorità con il celibato, la verità con la voce di pochi. In questa logica, l’ingresso delle donne rappresenta un rischio: quello di umanizzare il sacro, di aprirlo alla carne, alla relazione, alla pluralità.
Chi teme le donne sacerdoti spesso teme la perdita di controllo su un ordine simbolico e gerarchico che si è strutturato proprio escludendo il femminile. L’opposizione non nasce da una reale obbedienza al Vangelo, ma dalla volontà di preservare un’identità di casta, dove solo alcuni – per genere e stato di vita – sono considerati degni di “rappresentare Cristo”. Ma Cristo stesso ha sovvertito ogni logica di potere esclusivo: ha lavato i piedi, ha dialogato con le donne, ha affidato loro i primi annunci della risurrezione.
Il clericalismo, invece, costruisce barriere. E usa l’argomento dell’“imitatio Christi” in modo selettivo: si chiede somiglianza sessuale a Cristo, ma non somiglianza spirituale; si pretende il maschio, ma si dimentica la compassione, la giustizia, l’obbedienza al Padre che hanno definito la sua vita. Questo tradisce l’essenza del Vangelo e riduce il sacerdozio a un simbolo identitario chiuso, un fetish del potere spirituale maschile.
Solo smascherando il clericalismo come ideologia – non come necessità teologica – sarà possibile aprire spazi reali di riforma. L’accesso delle donne al ministero ordinato non è una “concessione moderna”, ma un atto di verità evangelica. È il riconoscimento che lo Spirito soffia anche nel corpo femminile, anche nella voce delle donne, anche nella loro capacità di rappresentare e trasmettere Cristo al mondo.
Una Chiesa liberata dal clericalismo non temerà le donne. Le accoglierà come soggetti ecclesiali adulti, capaci di presiedere, insegnare, consacrare. Perché non è il genere che conferisce autorità sacramentale, ma la chiamata di Dio, riconosciuta nella comunità e confermata dallo Spirito.
Numerosi scandali taciuti: donne violate nel nome della sacra obbedienza
Donne violate, bambini abusati: la sacralità usata come strumento di dominio
La Chiesa cattolica sta affrontando – da decenni, ma con un’enorme lentezza – uno dei suoi scandali più devastanti: quello della pedofilia clericale. Migliaia di minori, in tutto il mondo, sono stati vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, vescovi, religiosi. E in troppe occasioni, le gerarchie hanno coperto, insabbiato, protetto i colpevoli a scapito delle vittime. Il prezzo pagato è incalcolabile: vite spezzate, fedi distrutte, fiducia annientata.
Ma questo scandalo non è isolato. È parte di una cultura ecclesiale più ampia e più oscura, che riguarda anche le donne, in particolare le religiose, spesso abusate, manipolate, ridotte in schiavitù spirituale e fisica da parte di uomini di Chiesa. Minori e donne sono le vittime più facili in un sistema che sacralizza il potere maschile e impone il silenzio come virtù.
Le dinamiche sono simili:
- l’abuso viene esercitato da chi detiene potere spirituale, materiale e simbolico;
- la vittima è spinta al silenzio attraverso il ricatto morale, il senso di colpa, la paura della rovina ecclesiale;
- le autorità ecclesiastiche reagiscono con ritardi, negazioni, trasferimenti, intimidazioni, insabbiamenti.
Il caso del cardinale australiano George Pell, condannato nel 2018 per abusi sessuali su minori (e poi assolto in appello per ragioni procedurali), ha mostrato al mondo l’arroganza di una gerarchia che per anni aveva ignorato le denunce. I rapporti delle commissioni indipendenti in Irlanda, Germania, Stati Uniti, Francia (il rapporto Sauvé, 2021, parla di oltre 216.000 minori abusati in Francia dal 1950) rivelano una sistematicità agghiacciante.
Ma troppo poco si parla degli abusi sulle religiose: donne consacrate usate come servette, oggetti sessuali, corpi sacrificali nel nome dell’obbedienza religiosa. Le suore, proprio come i minori, sono spesso isolate, sprovviste di strumenti di difesa, senza accesso al diritto canonico o civile. Quando denunciano, vengono marginalizzate, silenziate, accusate di “scandalo” più che protette. Le comunità religiose femminili, che dovrebbero essere luoghi di libertà spirituale, diventano in alcuni casi ghetti di dominio maschile.
Nel 2019, Papa Francesco ha ammesso:
“Ci sono state delle religiose che sono state abusate sessualmente da sacerdoti e vescovi. È vero. Abbiamo sciolto alcune congregazioni femminili dove si erano verificate situazioni di corruzione sessuale gravissima.”
Ma la radice del problema resta intatta. Si tratta di un sistema che ha identificato per secoli la sacralità con l’inviolabilità maschile, la verità con la gerarchia, e il corpo con il peccato – soprattutto se il corpo è femminile o infantile. Questo sistema non può essere riformato parzialmente: deve essere trasformato alla radice.
Finché le donne non avranno voce, potere e riconoscimento sacramentale, la Chiesa resterà un’istituzione sbilanciata, pericolosamente incline all’abuso. Finché la teologia non sarà ripensata a partire dal corpo ferito – dei bambini abusati, delle suore zittite, delle donne escluse – la buona notizia del Vangelo sarà offuscata da una cattiva notizia sistemica: la Chiesa protegge i forti e sacrifica i vulnerabili.
La vera riforma ecclesiale non sarà compiuta finché:
- non si riconoscerà il ministero ordinato alle donne;
- non si abbatterà il clericalismo gerarchico e maschilista;
- non si darà ascolto e giustizia alle vittime di ogni abuso, anche quando esse mettono in discussione l’“immagine” della Chiesa.
Non c’è più tempo per mediazioni prudenti: la conversione ecclesiale passa dal corpo ferito. Passa dalle donne. Passa dai bambini. Passa dalla giustizia.
Non un ruolo, ma una giustizia da compiere
Il sacerdozio non è un privilegio da conquistare, né un ruolo da distribuire in nome della parità formale. È, nella sua essenza più autentica, un servizio profetico alla comunità, un luogo in cui la Parola prende voce, il Pane si spezza, il Popolo si raccoglie. Per questo, il tema dell’accesso delle donne al ministero ordinato non può essere ridotto a una battaglia di potere o a una semplice rivendicazione femminista – come spesso viene caricaturalmente presentata dai suoi oppositori.
Qui non si tratta di chiedere “più spazio per le donne”, ma di restaurare giustizia all’interno del corpo ecclesiale. Una giustizia che riguarda l’intera Chiesa, perché senza il riconoscimento della piena soggettività delle donne, la Chiesa è mutilata, l’immagine di Dio è deformata, la rappresentazione di Cristo è incompleta.
Negare alle donne l’accesso al sacerdozio significa impoverire la Chiesa della sua completezza antropologica: si esclude un’intera metà dell’umanità dalla possibilità di incarnare sacramentalmente la mediazione salvifica. È come se si dicesse: “Dio non può parlare attraverso di te, perché il tuo corpo non è conforme”. È una logica che ricalca antiche, ma mai superate, concezioni dualiste e sessiste, che separano la carne dallo spirito, il maschile dall’universale, e che contraddicono la buona notizia dell’incarnazione.
Il Vangelo ci offre tutt’altra immagine di Gesù: un Cristo che si lascia toccare dalla donna emorroissa, che accoglie il pianto della peccatrice, che affida il primo annuncio pasquale a Maria di Magdala, che si lascia convertire dalla donna siro-fenicia che gli chiede di estendere la salvezza anche ai “cagnolini” delle genti. Cristo non ha mai costruito barriere sessuate tra sé e l’altro/a. Al contrario: ha lasciato che le donne lo toccassero, lo interrogassero, lo contraddicessero. Ha ricevuto da loro gesti profetici, parole di verità, atti di coraggio.
Questa è la fedeltà al Cristo che va recuperata: non quella che ripete uno schema istituzionale maschile del potere, ma quella che restituisce centralità alla relazione viva, interpersonale, spiritualmente feconda tra il Signore e ogni essere umano, senza gerarchie di genere.
Riconoscere la vocazione sacerdotale delle donne significa riparare una frattura antica, sanare una giustizia ferita, liberare il Vangelo dalla prigione del patriarcato sacrale. È un gesto ecclesiale e spirituale insieme. Perché finché alle donne sarà detto: “Tu non puoi rappresentare Cristo”, la Chiesa continuerà a smentire il Cristo che ha rappresentato Dio per tutti.
In definitiva, non si chiede un ruolo da assegnare, ma un peccato da riconoscere e una giustizia da compiere.
Profezia o morte
O la Chiesa si apre al soffio dello Spirito e riconosce la differenza femminile come fonte di ministerialità piena, o si condannerà a diventare una struttura museale, che conserva ma non genera, che ripete ma non profetizza.
Chi ama davvero la Chiesa, non la difende nella sua chiusura: la spinge a convertirsi. Chi ama la Chiesa, la cambia. E la cambia non contro Cristo, ma per restare fedele a quel Cristo che si è lasciato ungere da una donna, seguire da una donna, testimoniare da una donna.
Bibliografia essenziale
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Ricostruzione delle origini cristiane da una prospettiva femminista. Fondamentale.
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Ecofemminismo e teologia della liberazione, da una voce latinoamericana autorevole.
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Uno sguardo italiano e contemporaneo sulle diseguaglianze ecclesiali di genere.
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Critica del potere istituzionale nella Chiesa cattolica.
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Studio storico e teologico della discriminazione ecclesiale verso le donne.
6. Tina Beattie, Theology after Postmodernity: Divining the Void, Oxford University Press, 2013.
Approfondimento sul simbolico femminile e la teologia del corpo nella tradizione cattolica.
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Testimonianza di un ex-abate che ha messo in discussione il potere clericale.
