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La società è cambiata, e i partiti?
di ELENA HILEG IANNUZZI*
Con il conseguimento del suffragio universale nel 1946 in Italia abbiamo visto dispiegarsi pienamente la democrazia basata sul consenso e la partecipazione
popolare, e, mediante la Costituzione repubblicana, l’affermazione di una democrazia parlamentare basata sulla rappresentanza politica delle parti sociali, regolata dal sistema dei Partiti.
Contestualmente alla ricostruzione post bellica del Paese e all’industrializzazione del suo sistema produttivo, l’esercizio democratico della partecipazione popolare si è ancorato all’affermazione dei primi veri e propri Partiti di massa, succeduti ai più antichi Partiti di tradizione risorgimentale, dalla base sociale assai più ristretta.
I Partiti di massa dunque in epoca repubblicana trovarono nelle organizzazioni sindacali e nelle sezioni territoriali i due principali gangli vitali di radicamento sociale, mentre il sistema del tesseramento e l’organizzazione dei Congressi ne regolano la vita interna e il confronto politico.
Giunta a maturazione la forma fordista di organizzazione sociale, basata sulla grande fabbrica e sul gran partito, la prima crisi del sistema di rappresentanza democratica basata sui Partiti si riscontra nel “lungo 68” Italiano, che vive un fermento sociale fuori dalle organizzazioni storiche tradizionali, per innervare nel tessuto sociale forme inedite di solidarietà orizzontale, le quali produrranno un’intensa “pressione dal basso” sul sistema dei Partiti.
Questi movimenti, che accanto ad un forte movimento operaio caratterizzano il paesaggio politico italiano degli anni sessanta e settanta, sono prevalentemente giovanili ed autorganizzati, originando nuove forme di mutualismo (pensiamo agli aborti clandestini di Emma Bonino) e anche di rappresentanza diretta degli interessi di alcune categorie sociali, escluse fino ad allora dalla griglia tradizionale di interpretazione politica, come ad esempio gli studenti, le donne, ed alcuni movimenti artistici ed intellettuali, di cui il Nobel per la letteratura Dario Fo e la sua compagna Franca Rame possono rappresentare il plastico esempio.
In questo orizzonte dialettico tra società ed istituzioni, si affermano il movimento femminista, il movimento studentesco, movimenti giovanili extraparlamentari che partono dal territorio e non dalla fabbrica e i prodromi del movimento ambientalista, le cui istanze politiche e partecipative verranno in parte accolte in ambito partitico e istituzionale su due versanti: 1. da una parte con l’integrazione programmatica di alcune istanze sociali provenienti dalla società, come ad esempio il diritto all’interruzione di gravidanza della donna, codificato legislativamente dopo una dura battaglia sociale, culturale e parlamentare nella legge 194/78, o come il movimento antinucleare, che porrà con un Referendum popolare fine alle Centrali nucleari in Italia; 2. d’altro canto il sistema democratico reagirà a questa mobilitazione sociale con l’assimilazione dentro i Partiti di candidature “indipendenti”, non dunque direttamente collegate alla vita interna del Partito o tesserate allo stesso, ma portatrici di istanze particolari di rappresentanza di alcuni segmenti della popolazione. In quest’ottica possiamo leggere l’anomalia di una candidatura di Toni Negri da parte di Pannella, nelle liste dei Radicali Italiani nel 1983.
Questa crisi “partecipativa” del sistema democratico di rappresentanza basata sui Partiti, che produrrà uno straordinario ciclo di riforme sociali e del lavoro, si esaurisce negli anni Ottanta con la chiusura del ciclo di lotte, passatemi il termine tranchant, “sessantottino”, aprendo una nuova fase politica, segnata invece dal riflusso della partecipazione attiva alla vita politica e da sempre più vistose forme di anomia, con il procedere di pari passo della globalizzazione e delle trasformazioni del lavoro.
La partecipazione popolare alla vita politica registrerà una ripresa, anzi un vero e proprio “exploit”, in seguito agli scandali di Tangentopoli che segneranno i primi anni novanta determinando la “caduta” della Prima Repubblica in Italia, anche sotto la pressione esterna di nuovi scenari internazionali, come la fine della “guerra fredda” e il crollo del muro di Berlino. In questa fase, che registrerà fino al 2001 il proliferare di micro movimenti su base cooperativa, partecipativa e auto-organizzata, giungerà a maturazione in un vero e proprio movimento dei “Social Forum” su scala mondiale (negli Usa, in Europa occidentale e in America Latina, il cui ultimo appuntamento si è registrato in Tunisia nel 2015, in connessione con le “primavere arabe”) in cui i Partiti sono stati fondamentalmente marginali, e che individua nel Forum economico mondiale, intorno al quale raccoglie i suoi appuntamenti internazionali, il più lontano, e sordo, interlocutore.
Questa marginalizzazione progressiva delle forme canoniche di rappresentanza nel mondo della partecipazione sociale alla politica, trova le sue ragioni nella crisi delle tradizionali forme del lavoro, e di organizzazione dei lavoratori, un tempo vettore principale di appartenenza sociale, oggi messo a repentaglio dalla ristrutturazione tecnologica, dall’affermarsi di forme atipiche, individuali e precarie del lavoro e dalla disoccupazione cronica, e segna il passo della crisi nelle democrazie dei paesi occidentali dei Partiti di massa, accompagnando un fenomeno strutturale di abbandono della partecipazione politica attiva ed elettorale, ormai giunta a soglie preoccupanti, ovvero che rasentano il dimezzamento della base elettorale attiva sugli aventi diritto.
Ma questo processo di disaffezione politica ha anche ragioni più vicine, nel rifiuto del mondo della politica istituzionale e del parlamentarismo, di interpretarne le istanze offrendo uno sbocco politico alle iniziative dal basso, con riforme adeguate alla domanda sociale, come abbiamo potuto osservare in tutta la stagione politica “berlusconiana” della nostra Repubblica.
A questa crisi della partecipazione, dei Partiti ma anche dei movimenti sociali di converso, si accompagna la crisi della “solidarietà lunga” tipicamente pubblica e del volontariato, soppiantata dalla “solidarietà breve” o paternalistica, di filiere corte, cooperanti a scopo utilitaristico, oppure all’affacciarsi di forme di solidarietà strettamente comunitaria e localistica, fortemente identitarista, laddove la mobilitazione sociale si concentra su interessi molto concreti e a breve termine, piuttosto che sui grandi ideali, centrata su obiettivi immediati, piuttosto che su grandi progettualità.
La terza crisi del sistema democratico fondato sui dei Partiti, che ricordiamo, non hanno ancora una regolamentazione interna costituzionale univoca, è quella che arriva ai giorni nostri e si è consumata nel lungo ventennio berlusconiano. E’ la crisi della partecipazione politica tout court, anche nella forma di una solidarietà integrativa ma non sostitutiva dello Stato e dei Partiti, cioè quella che registra la crisi dei movimenti di mobilitazione sociale e sindacale, nella società, e parimenti il sopravvento sulla scena politica dei partiti-azienda, come quello di Berlusconi, che per primo ha stabilito, con il famigerato “contratto con gli Italiani” un rapporto diretto tra il Presidente e i cittadini.
In questa crisi del sistema della rappresentanza democratica, si è rafforzata notevolmente l’inclinazione al leaderismo e al culto della personalità con una fisionomia politica quasi pre-moderna, dal punto di vista antropologico ed organizzativo, e si è insinuata più recentemente l’anomalia del Movimento 5 stelle, teso ad agitare demagogicamente il principio della “democrazia diretta”, erede della retorica antiplutocratica e anti-casta, pur avvalendosi invero di forme organizzative tecnocratiche che limitano, invece di potenziare, la partecipazione diretta e il potere della base nell’organizzazione politica, e che si rivela, di fatto, privo di un orizzonte valoriale comune e coeso tra i suoi associati, tenuti insieme dal culto della personalità di un capo carismatico, dalla giustapposizione di interessi tra loro anche divergenti e disponibile ad alleanze tattiche variabili, meramente utilitaristiche e di breve termine.
In questo scenario infatti, l’avvento delle nuove tecnologie ha offerto ai cittadini una apparente scorciatoia alla partecipazione politica, invero più percepita individualmente che realmente incisiva sul piano collettivo dell’aggregazione di interessi, nell’uso dei social media come elemento di sensibilizzazione e fattore mobilitante: pensiamo ad esempio alla piattaforma privata “Change” per la raccolta di firme e petizioni popolari, o agli “eventi” politici costruiti mediante l’utilizzo privilegiato della piattaforma, sempre privata, Facebook. L’implementazione di questa modalità aggregativa virtuale, diffusasi rapidamente negli ultimi anni, è arrivata ad imporsi nella sfera politica della rappresentanza in Italia con il Movimento 5 stelle, il cui programma è elaborato sulla piattaforma virturale di un blog privato, che porta il nome del leader del movimento, e le cui decisioni cruciali non sono discusse e votate nei rari meet-up territoriali, ma sono votate sulla piattaforma virtuale, di proprietà di Casaleggio, che porta il nobile nome del padre illuminista del “Contratto Sociale”: Rousseau.
Di fronte a questa sfida, la sinistra può ripartire sia dal ripensamento della forma Partito, come ha tentato di fare Podemos in Spagna con discreti risultati, sia dal rinnovamento dei suoi Programmi, come sta facendo la socialdemocrazia tedesca.
Come si comporteranno, quale strada sceglieranno di intraprendere per rinnovarsi, i Partiti della sinistra in Italia?
* Intervento al XII Forum dei Circoli socialisti di Volpedo. 6 ottobre 2019