Editoriale
Non è reality, è politica
È il talk show ad aver influenzato il linguaggio della politica oppure il contrario?
di Alessandro Andrea Argeri
È il talk show ad aver influenzato il linguaggio della politica oppure il contrario? Mi ha colpito questa domanda di Massimo Bernardini ai suoi ospiti a Tv Talk, uno dei pochi programmi Rai sopravvissuti alla restaurazione del berlusconismo, in cui ogni sabato si analizza “il racconto televisivo italiano”. I leader di partito non accettano di confrontarsi in televisione, né tantomeno la mediazione dei giornalisti. Piuttosto preferiscono affidare la propria comunicazione ai social in quanto questi permettono una comunicazione unilaterale, cioè priva di contraddittorio, vedasi “l’agenda di Giorgia”. D’altronde la riduzione all’osso del linguaggio porta alla diminuzione della capacità critica. Non prescinde da questo ragionamento nemmeno il confronto aspro in Parlamento: è un buon segno quando si verifica perché attesta la democrazia, ma il dibattito parlamentare è frutto di quanto viene detto nel Paese, pertanto non si parla ai propri compagni bensì al pubblico da casa.
La politica è quindi diventata un talk show. Ma perché i politici non si confrontano più pubblicamente tra loro né rilasciano interviste ai giornalisti? Innanzitutto, per tenere un qualsivoglia dibattito bisognerebbe trovare un giornalista neutrale per moderarlo, invece di quasi tutti sono chiare le intenzioni di voto. Di conseguenza, un politico di destra difficilmente si lascia intervistare da un giornalista di sinistra, o viceversa, perché sa di essere di fronte a un interlocutore ostile a priori. A tal proposito basterebbe citare la parabola di Gennaro Sangiuliano, passato in poche settimane da direttore del Tg2 nel pieno delle ultime elezioni politiche a ministro tecnico alla cultura nell’attuale Governo dopo la vittoria del centrodestra.
Ancora, pensiamo a quanto avvenuto durante l’ultima giornata di Atreju, festa nazionale di Fratelli d’Italia, dove il dirigente Rai Corsini prima si è definito “militante”, poi ha chiesto “come sta il nostro partito”, a proposito del quale ha usato più volte il pronome “noi”, infine ha attaccato Elly Schlein, un’importante esponente dell’opposizione, perché “preferisce occuparsi di come vestirsi e di che colori usare piuttosto che confrontarsi”. Fin qui tutto regolare: siamo ad Atreju, non sono richieste simpatie per gli avversari. Il problema però nasce nel momento in cui tali parole di identificazione con un determinato partito politico vengono da un dirigente Rai incaricato dell’informazione. La subordinazione della tv di Stato alla politica non è una novità, tuttavia, se fino al 2016 con la famosa “lottizzazione” i partiti si spartivano i canali in modo più o meno equo ma comunque obbrobrioso, ora tutte le reti dipendono dal Governo anziché dal Parlamento, dunque la narrazione è pressocché unica. Allora poniamoci un’altra domanda: con queste premesse quanto ci si può fidare dell’informazione di Stato?
Non è sbagliato avere un’opinione, anzi sarebbe preoccupante il contrario, tuttavia chi si occupa di raccontare gli avvenimenti dovrebbe mettere da parte la propria ideologia in virtù di una narrazione neutrale, pena un racconto fazioso o un inutile processo mediatico in seconda o prima serata. Inoltre, se da un lato l’assenza di contraddittorio facilita la propaganda politica, rispondere bene a una domanda “cattiva” può rafforzare l’intervistato tanto quanto nel caso contrario può porre fine a una carriera, perché il confronto è un’arma a doppio taglio da quando l’uomo ha imparato a comunicare, anche se forse molti esponenti della nostra classe dirigente finirebbero per tagliarsi. Insomma, se i rappresentanti di una società sono la sua diretta espressione, dobbiamo dare ragione ai teorici del Novecento quando affermavano l’impossibilità di comunicare. Solo che alla fine in tutto il caos comunicativo ci vanno di mezzo i cittadini, i quali poi non vanno a votare.
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