Politica
Andiamo a votare per dare un segnale alla magistratura (non basta, però aiuta)
Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla giustizia voluto da Radicali e Lega.
E’ probabile che non si raggiunga il quorum, e quindi tutto cada in un nulla di fatto.
Perché?
Di Benedetta Piola Caselli
Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla giustizia voluto da Radicali e Lega.
E’ probabile che non si raggiunga il quorum, e quindi tutto cada in un nulla di fatto.
Perché?
Ci sono tre ragioni principali.
La prima – quella fondamentale – è che il referendum è stato mutilato, perché i quesiti più importanti sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale: eutanasia, cannabis e responsabilità civile dei magistrati non verranno messi in discussione neanche questa volta.
Sul tavolo sono rimaste delle questioni antiche, ma meno sentite (abolizione del decreto “spazzacorrotti”, misure cautelari, separazione delle carriere) e altre e di cui i cittadini non hanno neanche mai sentito parlare (valutazione di professionalità dei magistrati, modalità di elezione dei componenti del CSM).
La seconda è il sabotaggio delle forze politiche, tradizionalmente avverse agli strumenti di democrazia diretta.
La terza è una debolezza intrinseca del referendum come strumento per intervenire su questioni estremamente tecniche, che hanno bisogno di riforme organiche, e che non possono essere trattate a colpi di mannaia.
Attenzione, il termine non è casuale: il referendum interviene proprio a colpi di mannaia, e cioè “tagliando”, ossia abrogando, una o più parole di una disposizione di legge già esistente, e risulta del tutto inadatto se invece occorre correggere o aggiungere qualcosa al testo.
In alcuni casi l’approccio referendario va bene.
Questo avviene in genere per le questioni di principio, quando l’opinione pubblica ha chiaro un problema che può essere effettivamente risolto con un si o con un no.
In altri casi non va bene, come in quelli in cui si affrontano questioni molto particolari e interconnesse le une alle altre.
Il rischio è che le nuove disposizioni risultino incoerenti con le altre norme del sistema, rendendo necessario un complicato, successivo, rabberciamento legislativo.
Il Referendum di oggi ne è un esempio.
Su tre dei quesiti referendari, inoltre, si sta pronunciando il Parlamento attraverso la terza parte della riforma Cartabia, anche se va detto che le soluzioni proposte non sono poi così distanti da quelle dei quesiti.
Detto questo, vale la pena andare a votare al referendum, oppure è meglio andare al mare?
Dalle premesse sembrerebbe meglio il mare.
E invece no.
C’è una ragione fondamentale per andare a votare: anche con le sue criticità, questo referendum impone una riflessione sulla magistratura.
Al netto di alcuni giudici che svolgono con dedizione e competenza il loro lavoro, la situazione del terzo potere in Italia è disastrosa, come hanno dimostrato (fra le altre cose) i casi Palamara e Amara.
Ecco che il Referendum, con tutti i suoi limiti, è un atto di accusa ad una situazione di impunità e licenza che deve essere fermata, ovviamente con interventi più strutturali e radicali da operare nel futuro.
Questa funzione simbolica non va sottovalutata.
Indipendentemente dal risultato della votazione (ci sono dei quesiti in cui voterò NO) è il raggiungimento del quorum il segnale politico importante.
Il problema della magistratura italiana è grave e nessuna opportunità deve essere sprecata.
I quesiti interi li potete leggere qui https://dait.interno.gov.it/elezioni/speciale-referendum
tenendo a mente che se si vota “si” si vota per l’abrogazione della parte della norma che coincide con il testo, se si vota “no” si mantiene la regola così come è.
Vediamoli però uno per uno, cercando di capire dove sono i problemi, e cominciando da quelli che sono più “popolari”, cioè più conosciuti e comprensibili.
1) Abolizione del Decreto Spazzacorrotti (D.lgs. 235/12 “Severino”).
Cominciamo con lo sgombrare il campo da un quesito spurio.
Il Referendum è stato un compromesso fra forze politiche diverse, e dunque non sorprende di trovare, camuffato da garantismo, l’attacco all’ etica minima nella gestione pubblica.
Il decreto “Spazzacorrotti” (rectius: D.Lgs 235/12), prevede l’incandidabilità o la decadenza dalle cariche pubbliche per i condannati in via definitiva su alcuni tipi di reati.
Quali sono questi reati?
Alcuni di quelli considerati di allarme sociale, come mafia e terrorismo; quelli contro la pubblica amministrazione, come corruzione, concussione, peculato; quelli comuni ma non bagatellari, e quindi puniti con una pena superiore a 4 anni.
Inoltre i condannati in via non definitiva (cioè in primo o secondo grado con procedimento pendente) restano sospesi dalla carica per un massimo di 18 mesi. Poi, se poi la pronuncia definitiva non arriva, possono essere reintegrati.
Quale è il problema?
I critici della Severino farfugliano.
Alcuni oppongono un problema di democrazia all’incandidabilità dei condannati in via definitiva, dicendo che la volontà popolare dovrebbe prevalere sempre e comunque (!), altri si lamentano di iter processuali lunghissimi e incerti che potrebbero risolversi con un’assoluzione.
Il quesito referendario abbraccia questi farfugliamenti.
Votando “si” verrà abolita l’incandidabilità/decadenza dei condannati in via definitiva.
Inoltre, verrà abolito il meccanismo di sospensione automatica dei condannati non definitivi, con la conseguenza di lasciare al giudice la decisione sull’applicazione in fase cautelare (cioè prima della condanna) di una misura interdittiva, quale la sospensione dell’esercizio di un pubblico servizio o ufficio (art. 289 c.p.p.)
Questo scenario non è un progresso nella gestione efficiente del paese.
Anche se effettivamente il D.lgs 235/12 è perfettibile (cosa per cui è necessario un intervento tecnico) ed ha causato una serie di problemi applicativi, l’idea di fondo dell’incandidabilità/decadenza dei condannati dovrebbe costituire un minimo etico insindacabile: chi si macchia di certi reati non deve gestire la cosa pubblica.
Inoltre, c’è un problema di confusione fra cause e conseguenze.
E’ vero che sono possibili gli errori giudiziari, e quindi la sospensione dalle cariche pubbliche di persone che poi si riveleranno innocenti, però all’errore si ripara lavorando sulle cause dell’errore e non abolendo una regola che con l’errore non c’entra nulla.
Se il problema è la valutazione, occorre intervenire su chi valuta.
E proprio l’argomento soggiacente a tutto il Referendum – cioè l’inaffidabilità della magistratura italiana – dovrebbe spingere a volerle attribuire il minor potere discrezionale possibile, anche e soprattutto in sede di scelta delle misure cautelari e interdittive, privilegiando gli automatismi di legge.
Personalmente voterò NO.
2) Abolizione delle misure cautelari per la reiterazione dei reati minori.
Altro tema importante, anche se tecnico, è quello dell’abuso delle misure cautelari.
L’articolo 27 della Costituzione sancisce la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva, con la conseguenza che nessuno, prima di allora, dovrebbe subire una limitazione della propria libertà.
Perché allora la gente va in carcere prima che sia finito il processo?
L’articolo 274 del codice di procedura penale prevede delle eccezioni al principio generale, in nome della correttezza delle indagini, dell’efficacia del processo e della necessità di prevenzione del crimine: la libertà personale può essere limitata se c’è pericolo di inquinamento delle prove, di fuga o di reiterazione del reato.
Quando si parla di misure cautelari personali il pensiero corre al carcere o, in subordine, ai domiciliari, ma i mezzi per limitare la libertà personale sono vari e gradati, e comprendono il divieto di espatrio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (le “firme”), l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il divieto o l’obbligo di dimora nel comune.
A questo si aggiungono le misure “interdittive” per particolari tipi di reati, come la sospensione della responsabilità genitoriale, la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o un servizio, il divieto temporaneo di esercitare una professione o un’attività di impresa.
Di queste misure – tutte – è fatto largo abuso dai magistrati ma, mentre per quelle meno afflittive si può chiudere un occhio, l’uso spregiudicato della custodia in carcere rappresenta un vulnus gravissimo per la giustizia italiana.
Il carcere non rappresenta solo un luogo di limitazione della libertà personale, ma anche una punizione preventiva che mette a repentaglio la sicurezza e la salute, e che può essere un’ esperienza devastante, specialmente per i giovanissimi.
A fronte di questo, il referendum vuole limitare lo strapotere dei magistrati abrogando l’ultima parte dell’articolo 274 c.p.p., cioè la possibilità di applicare le misure cautelari sul presupposto della possibile reiterazione del reato, e quindi su un avvenimento futuro e incerto.
Il problema è serio ma, anche qui, cosa pensare?
Ancora una volta la risposta non è pertinente al problema.
Infatti, se il cuore della questione è l’abuso del mezzo, l’intervento deve riguardare l’abuso e non il mezzo.
Sono due cose da non confondere.
Le misure cautelari già sono disciplinate con limiti stringenti e sono previste in modo gradato, così che il carcere può essere disposto solo a determinate condizioni e nell’assoluta inadeguatezza delle altre opzioni.
Se questi limiti sono ritenuti insufficienti, se queste condizioni sono considerate troppo lasche, occorre un intervento normativo mirato ed organico.
Se il problema invece è che né i primi né le seconde sono rispettate, il problema non è nella norma ma in chi la fa applicare, e quindi l’attenzione deve spostarsi (ancora una volta) dalla regola al giudice.
I nostri giudici giudicano bene?
Parliamo di questo.
E se giudicano male, cosa succede?
Parliamo anche di questo.
Le misure cautelari servono, così come serve la cautela nell’applicarle.
Una riforma della giustizia che sia seria, ancora una volta dovrà partire dalla qualità delle persone che sono messe a giudicare; e toccare cose a casaccio rischia di essere una toppa peggiore del buco.
Personalmente voterò NO.
3) La separazione delle carriere.
Del tema si discute da decenni, ma cosa vuole dire?
E la riforma è veramente utile?
Cominciamo dall’inizio.
Il processo ha tre attori: l’ accusa (il pubblico ministero), la difesa (l’avvocato), e un giudice che dovrebbe essere terzo e imparziale.
Il nostro sistema però vede una commistione fra l’organo di accusa e l’organo di giudizio, perché sia il PM che il giudice appartengono allo stesso corpo, passano lo stesso concorso, lavorano gomito a gomito e possono persino scambiarsi le funzioni.
Per le regole vigenti oggi, nel corso della carriera, un magistrato può cambiare funzione quattro volte: è chiaro che è difficile garantire una vera imparzialità in queste condizioni.
Che cosa cambia con il referendum?
Se il quesito troverà consenso, i giudici dovranno scegliere quale funzione assumere senza possibilità di cambiare in seguito.
In direzione analoga si muove il testo Cartabia, che prevede invece un solo cambio nel corso della carriera.
Nessuno dei due interventi rende però più funzionale il sistema.
Infatti una vera riforma – come se ne discuteva negli anni novanta – imporrebbe concorsi diversi e percorsi professionali autonomi, oltre ad un nuovo e articolato sistema di check and balance fra accusa, difesa e giudizio.
Questo tipo di intervento sarebbe possibile solo con la procedura aggravata di revisione costituzionale, perché la Carta fondamentale, nel disciplinare il potere giudiziario, non distingue fra la magistratura requirente e la magistratura giudicante.
Qualcuno ha sottolineato che i PM, non potendo cambiare funzione, si sentirebbero svincolati dal loro ruolo super partes e “perderebbero la cultura della giurisdizione”.
Che cosa vuol dire?
Anche i Pubblici Ministeri, essendo giudici come gli altri, dovrebbero essere terzi e imparziali e dovrebbero svolgere il loro ruolo producendo, per esempio, anche gli elementi a discarico dell’imputato.
Nella pratica corrente questo spesso non avviene.
Insomma: consci delle distorsioni interne al sistema, gli stessi magistrati non si fidano degli altri magistrati e denunciano il pericolo che i PM diventino “dei super poliziotti”.
E’ un argomento per votare no?
Sicuramente non basta il quesito referendario a influire sulla vis punitiva della pubblica accusa, e sicuramente è necessaria una riforma profonda che prenda atto dell’esperienza maturata fin qui, per correggerla in modo razionale.
Ma, in questo pasticcio, c’è almeno la speranza che l’esasperazione delle contraddizioni che ne deriveranno obblighino ad un intervento più radicale e meglio pensato.
Insomma: non basta, però aiuta.
Per questa ragione voterò SI.
4) Valutazione della professionalità dei magistrati.
E’ uno dei quesiti meno capiti e meno interessanti per i cittadini comuni.
Cominciamo dall’inizio: chi valuta la professionalità dei magistrati per gli avanzamenti di carriera? Loro stessi.
E loro stessi si trovano eccellenti: secondo quanto riportato della Ministra Cartabia per il quinquennio 2017-2021 le valutazioni positive costituiscono il 99,2 % del totale.
Insomma, non lo sapevamo ma abbiamo dei magistrati eccezionali.
Istintivamente verrebbe da ridere, anche se di riso amaro.
Invece i dati fanno proprio urlare, specialmente se confrontati con la quantità di errori giudiziari, la spesa per le ingiuste detenzioni e le eque riparazioni, la lunghezza dei processi e la mole di arretrato negli uffici giudiziari.
Il referendum cerca di tamponare questa situazione inserendo negli organi di valutazione dei magistrati anche una componente di avvocati e di professori , nella speranza di renderla più obiettiva.
La riforma Cartabia propone quasi lo stesso, inserendo gli avvocati ma lasciando fuori i professori universitari.
Per capire il punto bisogna fare un passo indietro.
Il sistema funziona così: i magistrati vengono valutati ogni 4 anni dal Consiglio Superiore della Magistratura sulla base di pareri che sono predisposti dai Consigli giudiziari e dal Consiglio direttivo della Cassazione.
Entrambi questi organi sono teoricamente misti, perché contengono una componente “laica” di non magistrati, composta da avvocati e professori ordinari di diritto.
In genere la proporzione è di 2/3 di magistrati e 1/3 di membri “non togati”, oltre ai componenti di diritto quindi, in teoria, magistrati, avvocati e professori collaborano fianco a fianco negli organi di autogoverno dei giudici.
Però c’è un’eccezione: nelle valutazioni di professionalità i membri “laici” sono esclusi, quindi il giudizio sui magistrati è fatto solamente dai magistrati.
I risultati si vedono.
Per quanto l’idea di utilizzare avvocati e professori come cani da guardia delle valutazioni non sia sbagliata, il problema è molto più ampio.
Il controllo sull’operato della magistratura è una questione delicatissima che va a incidere sull’indipendenza del terzo potere e quindi sull’assetto di tutto lo Stato e, per questa ragione, deve essere affrontato in modo organico e particolarmente tecnico.
Le critiche su questo quesito referendario sono di due tipi: per la prima un avvocato non dovrebbe giudicare il giudice che poi avrà a processo (questa è una sciocchezza, ci sono milioni di modi per impedire questa situazione) e per la seconda il provvedimento sarà poco incisivo.
Questo secondo punto è più forte, ed è provato dalle resistenze incontrate dalla stessa Ministra Cartabia.
C’è comunque da sperare che si possa introdurre un piccolo argine ad una impudenza che ha raggiunto i limiti del grottesco, e che comunque il risultato referendario sottolinei la necessità di un intervento ulteriore e più strutturale.
Insomma, anche qui: non basta, però aiuta.
Personalmente voterò SI.
5) Elezione dei membri togati del CSM
Anche questo quesito è poco chiaro ai cittadini.
Il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di autogoverno del potere giudiziario, ed è composto per 2/3 da magistrati eletti fra loro stessi, e per 1/3 da professori di diritto ed avvocati eletti dal Parlamento in seduta comune, oltre che ai tre membri di diritto.
La questione riguarda l’elezione dei membri “togati”, cioè dei magistrati che entrano a farne parte.
Il cuore del problema si può riassumere cosi: nel CSM si combattono correnti politiche e conventicole di potere che gestiscono clientelismi, lottizzazioni delle cariche, avanzamenti di carriera.
Il posto è ambito sia per questioni di potere che per l’indennità di circa 100.000 euro annui che ricevono gli eletti.
Per tentare di depotenziare almeno un po’ le correnti politiche e favorire l’elezione di magistrati estranei ai gruppi di potere prevalenti, si è pensato di intervenire sul processo elettorale.
Oggi un magistrato, per poter proporre la propria candidatura al CSM, deve presentare 25 firme a suo sostegno.
Questo sistema, si dice, favorisce le correnti che organizzano di appoggiare questo o quell’aspirante per poi averne in cambio un appoggio futuro; invece, permettendo a chiunque di presentare liberamente la sua candidatura, si avrebbe la possibilità di fare eleggere candidati indipendenti, con il risultato anche di depotenziare un sistema di malaffare che è ormai dato per assodato.
Il referendum quindi abolisce la previsione delle 25 firme, facendo rivivere la disposizione originaria del 1958 sul funzionamento del CSM.
La riforma Cartabia – che affronta lo stesso problema- invece prevede un sistema di elezione piuttosto complesso che mescola elementi proporzionali e maggioritari.
Ma sono riforme che hanno speranza di funzionare?
Secondo gli addetti ai lavori no.
Nessuna reale trasformazione è possibile senza una riforma radicale e senza partire dalla selezione del corpo giudicante.
Anche in questo caso, il quesito va preso nella sua funzione di indirizzo politico; e anche qui si può dire: non basta, però aiuta.
Personalmente quindi voterò SI.
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