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Esteri

Il Nuovo Papa e l’Impero: Trump, il Vaticano e la Transizione verso il Mondo Multipolare

Un papa che guarda ai Sud del mondo non è utile alla strategia statunitense. Non accompagna la transizione: la mette in discussione.

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Di Maddalena Celano

Il fatto che il nuovo papa non sia gradito a Donald Trump ha sollevato un’ondata di speculazioni e analisi. Tuttavia, al di là delle apparenze, questo dissenso va interpretato in chiave strategica e non morale. Non è una questione di fede, ma di potere. Non è un rifiuto spirituale, ma geopolitico.

Donald Trump, sin dal suo insediamento alla Casa Bianca nel 2016, ha cercato di ridefinire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, promuovendo un isolazionismo tattico e un ritorno alla “realpolitik” in stile Kissinger. In questo disegno, la figura del papa – e il Vaticano come potenza soft – avrebbe dovuto collaborare alla transizione verso un nuovo ordine mondiale multipolare, purché sotto regia USA.

Non sarebbe la prima volta. Durante la Guerra Fredda, il ruolo di Giovanni Paolo II fu determinante per destabilizzare il blocco socialista, specialmente in Polonia, sua patria. Henry Kissinger stesso, in più occasioni, ha sottolineato il ruolo della Chiesa Cattolica come partner informale nella costruzione di egemonie geopolitiche: “La diplomazia vaticana è una delle più sofisticate al mondo,” scrisse nel suo Diplomacy (1994). Anche George Bush Jr. trovò nella Santa Sede un alleato morale, almeno inizialmente, nella crociata ideologica post-11 settembre.

Trump invece avrebbe preferito un papa funzionale a un nuovo equilibrio: un pontefice capace di legittimare la transizione degli Stati Uniti da unica superpotenza a “primus inter pares” in un mondo dominato da blocchi regionali (BRICS, ASEAN, Unione Africana). L’obiettivo non era rinunciare al dominio, ma riconfigurarne la forma. Un papa statunitense – o culturalmente affine – avrebbe facilitato tale passaggio, mantenendo saldo il primato morale dell’Occidente.

Ma il papa precedente – le cui prime dichiarazioni richiamarono la Populorum Progressio di Paolo VI e l’opzione preferenziale per i poveri del Concilio di Medellín – sembrarono invece voler costruire ponti verso Sud, non verso Washington. Il suo linguaggio richiamò figure come Hélder Câmara, Óscar Romero e persino il gesuita Ignacio Ellacuría, assassinato dagli squadroni della morte in El Salvador. Non è un caso che tra i suoi primi atti furono gli appelli per Gaza, per il debito africano e contro l’ipocrisia dell’Occidente verso le crisi dimenticate.

Questo orientamento disallineato rispetto alla dottrina geopolitica statunitense – oggi sempre più in difficoltà nel contenere l’espansione dei BRICS+ (che rappresentano ormai oltre il 40% della popolazione mondiale e circa il 36% del PIL globale) – è percepito da Trump come una minaccia. Non perché il papa abbia potere militare, ma perché possiede ciò che manca agli Stati Uniti: legittimità morale in declino.

In un contesto in cui il dollaro è sempre più contestato, il ruolo della NATO viene messo in discussione, e paesi come Russia, Cina, Iran e India dettano la loro agenda, l’unico modo per gli USA di mantenere centralità è attraverso l’egemonia culturale e spirituale. Se anche questa viene meno, la decadenza dell’impero si fa inarrestabile.

E allora, il problema non è il papa in sé. È il fatto che non vuole essere il cappellano dell’impero. Un papa che guarda ai Sud del mondo non è utile alla strategia statunitense. Non accompagna la transizione: la mette in discussione.

E questo, per Trump e per chi crede nell’unilateralismo come destino, è inaccettabile.