Esteri
La crisi tra Gaza ed Israele
Come nasce questa nuova crisi, come si sviluppa sul territorio, quali sono le vere ragioni scatenanti e chi vi è dietro.
Aree di crisi nel mondo n. 68 del 14-5-2021
di Stefano Orsi
Si è riaccesa dopo qualche anno la crisi tra Israele e i palestinesi, sia quelli dei territori occupati, Gaza e Cisgiordania, che gli stessi cittadini israeliani di etnia araba che vivono dentro i territori dello Stato.
Gli scontri sono iniziati a causa di una sentenza che obbliga alcune famiglie, 13 in tutto, allo sfratto da alloggi in cui vivono dal 1948, anno della conquista di Gerusalemme ovest da parte del nascente Israele con la relativa cacciata delle famiglie palestinesi dalle zone sotto il suo controllo, alcune di queste si erano pertanto sistemate in alloggi abbandonati da famiglie ebraiche scappate nella parte ovest.
Ora, senza alcuna reciprocità, i tribunali israeliani sentenziano che questi alloggi sarebbero di proprietà delle famiglie israeliane e che le famiglie palestinesi dopo più di 70 anni che le occupano e ne hanno cura, sarebbero tenute a pagarne un affitto, che naturalmente non pagano. Il quartiere in questione, Sheik Jarrah, si trova nella parte est di Gerusalemme, parte occupata nella guerra del 1067 e dove vivono più di 250.000 palestinesi.
La risoluzione n. 242 delle Nazioni Unite ne sancisce la natura di territorio occupato sul quale pertanto si applica la legge umanitaria internazionale e la forza occupante è tenuta al suo rispetto. I tribunali israeliani, pertanto, non hanno giurisdizione per il diritto internazionale, non solo, lo sgombero forzato di cittadini e famiglie palestinesi si configurerebbe come un vero “crimine di guerra”. Questo proprio per la natura discriminatoria delle leggi israeliane che si applicano sulla base della nazionalità dei cittadini coinvolti.
Per difendere il diritto di queste famiglie a rimanere nelle loro case, la sera del 7 maggio una folla di Palestinesi, al termine della giornata di ramadan e alla fine del venerdì di preghiera, si è recata sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme per manifestare contro Israele e i suo crimini.
Sono intervenute le forze di sicurezza israeliane che hanno invaso la spianata delle moschee, accolte dalla sassaiola dei fedeli presenti proprio fuori dalla Moschea Al Aqsa.
Le forze israeliane hanno sparato decine di granate stordenti, causando quasi 200 feriti tra i palestinesi.
Gli israeliani si sono spinti fino a sparare le granate anche all’interno della stessa moschea, fatto di inaudita gravità, che ha suscitato la rabbia in tutta la Palestina.
Una delle formazioni di punta delle forze di difesa palestinesi presso la Striscia di Gaza è nota col nome di Hamas, formazione ben organizzata sostenuta da diversi Paesi arabi, un tempo da Saddam Hussein, poi dall’Arabia Saudita e dal Qatar, più di recente dalla Turchia, ciò ne chiarisce anche lo schieramento a fianco dei “ribelli” siriani, così definiti dai nostri media, che nella realtà erano formazioni terroriste da un lato, Al Qaeda o ISIS, e dall’altro gruppi di tagliagole al servizio diretto della Turchia.
Hamas ha iniziato, in risposta all’aggressione israeliana presso Gerusalemme, una serie di lanci di razzi, ad oggi circa 2000, verso diverse località dello stato di Israele, da Gerusalemme ovest ad Askhelon, Asrod, Kiriat Gat, Beer Sheba, e altre ancora, un’offensiva cui è immediatamente seguita la pesantissima replica israeliana con i bombardamenti delle artiglierie e dei caccia-bombardieri che hanno fatto piovere sulla città centinaia di ordigni ad alto potenziale.
Le vittime sono molte da parte palestinese e poche, ma presenti, anche da parte israeliana.
Non c’è molto da esaminare dal punto di vista strategico se non il fatto che i lanci di razzi denotano molta varietà nelle tipologie di modelli impiegati e generalmente prodotti in loco dai Palestinesi, che il loro effetto sia poco o nullo in quanto a risultati effettivi, mentre sul piano politico sia piuttosto rilevante la scelta dei bersagli, aree residenziali e non basi militari per capire, è dovuto a due fattori: la scarsa precisione intrinseca di questi razzi auto prodotti e la necessità di dimostrare la vulnerabilità del paese di fronte all’opinione pubblica israeliana ancor prima che la loro interna.
La pesante risposta israeliana invece cerca di decapitare i vertici di Hamas, alcuni comandanti sarebbero stati eliminati, i tecnici che lavorano alla produzione dei razzi, almeno un ingegnere sarebbe stato eliminato, e poi le infrastrutture. Resta il fatto che il sistema Iron Dome, baluardo della difesa missilistica israeliana, è stato bucato da ordigni costruiti in qualche seminterrato di Gaza.
Come è stato possibile questo? Occorre capire che ogni sistema di difesa aerea ha una serie di limiti, il primo dei quali è il numero di bersagli che il sistema riesce a individuare, poi tra questi, il numero di quelli da tracciare per poi colpirli, infine, il numero di missili che può utilizzare per rispondere ad un attacco, quando uno di questi elementi o più di uno viene saturato, il sistema non è più in grado di abbattere i bersagli in volo.
Per capirci meglio, Iron Dome, sistema prodotto dalla Rafael israeliana, ha dei pacchetti di lancio pronti composti da 20 missili, il radar di controllo e ingaggio monitorizza i bersagli in arrivo e ne identifica le traiettorie di caduta, poi designa i bersagli per ogni missile e li lancia, spesso anche due per ogni bersaglio, quindi il limite di ogni postazione di lancio è attorno ai dieci bersagli, i successivi dieci passeranno tutti.
Sulla carta il sistema dovrebbe colpire i bersagli fino a 70 Km, ma dai video si vede bene come gli ingaggi avvengano a quote basse e in prossimità delle batterie di lancio, i missili percorrono orizzontalmente ad una quota prefissata la distanza dal punto di lancio fino al punto di attacco e da lì assumono la traiettoria di intercettazione.
Costo per ogni pacchetto circa 10-15 milioni di dollari, costo di una salva di missili KM107 poche migliaia di dollari.
Dopo il primo giorno di lanci fitti, i comandi israeliani pare abbiano ordinato di limitare la risposta col sistema Iron Dome, perchè si sarebbe assottigliato troppo il livello delle riserve disponibili, difficili da rimpiazzare in breve tempo ed, in caso di eventuale attacco esterno, la cosa presenterebbe non pochi problemi.
Insomma non sono tanto i danni arrecati a creare problemi ad Israele quanto il mettere in evidenza i limiti del loro sistema di difesa.
L’aspetto che reputo più grave per il Paese è invece il fattore delle rivolte interne, queste stanno davvero mettendo a nudo le tante fragilità del sistema stato basato su una idea di unità tra Stato e fede, e cioè che sia un tutt’uno Israele e la fede ebraica, in quanto questo fa sì che chi ha differente fede, come la minoranza araba, molto numerosa comunque e in forte crescita demografica, si senta esclusa anche se in possesso di passaporto ebraico. Tralascio il discorso sull’Apartheid di fatto nei confronti della popolazione palestinese dei territori occupati per ragioni di tempo e spazio, il discorso è davvero troppo complesso.
Le rivolte nel Paese, in città come Lod, dove gli arabi hanno addirittura preso il controllo della città, creano una spaccatura enorme tra la popolazione, che difficilmente verrà ricomposta in breve tempo. Le violenze scatenate dalla rabbia di decenni di soprusi subiti stanno emergendo e, al contempo, emerge anche l’insofferenza israeliana verso quella parte di popolazione che da sempre vede come una parte che non è riuscita a schiacciare e deve tenersi contro la sua volontà. In queste ore bande di israeliani si aggirano vendicandosi verso gli arabi che gli capitano a tiro nelle strade, violenza chiama violenza e difficilmente viene dimenticata.
Ma perché tutto questo è avvenuto adesso?
Alla fine, credo che la ragione principe si riassuma in una sola e semplice motivazione: era ormai prossimo l’insediamento del nuovo governo, che avrebbe molto probabilmente visto l’accordo sul nome del nuovo premier in Naftali Bennet, estromettendo del tutto e per la prima volta da molti anni il partito di Netanyahu e lui stesso dai giochi.
Non era ipotizzabile che “Bibi” permettesse tutto ciò senza battere ciglio ed infatti credo che dietro a tutte queste morti e distruzione ci sia direttamente il suo zampino.
Non è la prima volta che, in vista del voto o di un possibile cambio di governo, si scateni una crisi bellica per tenere molto alta la tensione. Non c’è in gioco solo la gestione del potere, ma il suo futuro da cittadino libero, pendono su di lui diversi processi che attendono di poter giungere a sentenza.
La nuova maggioranza sarebbe dovuta essere composta dal partito centrista Yesh Atid, del leader Yair Lapid, e dal partito Yamina di Bennet, ma con appoggio esterno dei partiti arabi. Si comprende bene come in questa situazione sia impossibile ipotizzare la nascita di un simile governo, ed ecco che Bennet ora dice di aver aperto il dialogo con il partito Likud di Netanyahu per la formazione di un governo, Bibi ha fatto nuovamente il colpaccio, se riesce formerà un governo di cui farà parte, come ministro o Premier direttamente, se va male, resterà in carica fino al prossimo voto che sarebbe il quinto in due anni. La Knesset, il parlamento israeliano, sembra divenuto ostaggio del futuro giudiziario del Premier “ad aeternum” Netanyahu.
Non voglio commentare la sceneggiata dei politici italiani che si sono fotografati assieme con la bandiera di Israele, perché, vista l’analisi che ne ho fatto e le ragioni che hanno causato tante morti, ci sarebbe da invitarli “ad andare a quel Paese”, proprio per usare un eufemismo.
Resta a voi dare un giudizio su una classe dirigente israeliana che non si fa scrupoli di gestire in siffatta maniera le beghe interne e se questo possa rappresentare un modello di “democrazia” come alcuni vorrebbero intendere, o invece un modello di stato-canaglia e gestito da veri criminali.
Ai posteri l’ardua sentenza.