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Musica & Spettacolo

Il jazz come categoria dello spirito

È possibile parlare di musica in termini generici, affermare cioè che tutto sommato la fruizione ad esempio di un brano cantato e di uno esclusivamente strumentale siano da considerarsi più o meno la stessa cosa? Che la musica pop e quella classica rispondano alla stessa esigenza degli esseri umani? Il convincimento della scrivente è che no, discettare di musica in termini generici non sia possibile.

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Chi di noi non ha un rapporto che definirebbe viscerale, privilegiato con un qualche tipo di musica o anche semplicemente con una canzone in particolare? Quante volte ci capita di sentire qualcuno confessare di essere capace di ascoltare per decine di volte un medesimo brano? In altri miei scritti ho cercato di indagare le ragioni che ci spingono verso la musica, giungendo peraltro a conclusioni che finiscono inevitabilmente col riproporre l’interrogativo iniziale, sebbene taluni elementi del percorso di fruizione di questo miracolo che si chiama musica, possano comunque essere identificati. È doveroso peraltro sottolineare che così come ci sono ignote le ragioni che verso la musica ci spingono, allo stesso modo è arduo comprendere da dove, dentro chi la musica, quella autentica, la compone, prenda vita o se invece non ne abbia già una sua autonoma di esistenza, che anzi semplicemente si svela e che noi decidiamo di “trascrivere” come sotto dettatura, di farci cioè semplici strumenti della sua comunicazione. Non si può nemmeno escludere che gli studiosi riescano prima o poi ad offrire una spiegazione soddisfacente degli enigmi che finora sono stata solo in grado di elencare.

Ma è possibile parlare di musica in termini generici, affermare cioè che tutto sommato la fruizione ad esempio di un brano cantato e di uno esclusivamente strumentale siano da considerarsi più o meno la stessa cosa? Che la musica pop e quella classica rispondano alla stessa esigenza degli esseri umani? Ovviamente la risposta è no, ma anche questa risposta rischia di diventare a sua volta generica.

La cantautorale ad esempio, con i suoi testi, risponde ad un bisogno anche letterario, poetico o di racconto vero e proprio. Forse la classica più di ogni altra disegna geometrie che ci incantiamo a guardare come le costellazioni nel cielo d’estate. Ed ovviamente ciascun autore, all’interno di ciascun genere, presenta sue specifiche peculiarità.

Tuttavia esiste un genere che in fatto di particolare rapporto che è capace di creare con chi lo ascolta, più degli altri rivela sue  specificità ed è il jazz. Chi ascolta il jazz è probabile che lo ascolti sempre in maniera esclusiva, o almeno per un certo periodo. Il che non significa che il jazzofilo non apprezzi gli altri generi musicali, ma che gli sarà difficile, nei periodi in cui è immerso nel jazz, fare un salto “altrove”, salvo eccezioni che si sa, confermano la regola. Perché ciò accade? Anche in questo caso non ci sono risposte semplici. Va anche detto che ” jazz means nothing”, che cioè non esiste un solo jazz, ma diversi, anzi, tanti tipi di jazz, ognuno dei quali peraltro sottoposto alle evoluzioni obbligate del tempo. Vi sono comunque tra di essi degli elementi di contatto sostanziale, che fanno sì che i musicisti conoscano e scelgano di confrontarsi anche con idee di jazz agli antipodi le une con le altre. Tale versatilità può dipendere da un’innata capacità dell’artista, che tuttavia non basterebbe se non fosse supportata da ciò che di più caratterizza il musicista jazz e cioè la preparazione tecnica indispensabile per misurarsi con il genere.

Ma come mai il jazz è in grado di suscitare tanta dedizione tra coloro che lo amano? Credo di non sbagliare affermando che la tecnica che ne è alla base ha delle origini storiche precise: nasce dal blues, dunque come espressione della cultura degli uomini di colore, benché negli ultimi anni sia stata dimostrata l’ipotesi di un’influenza italiana, in particolare di immigrati siciliani, che però a mio giudizio cambia di poco la sostanza della questione: a suonare il jazz e quindi a formarne in origine il linguaggio sono stati gli afroamericani. Non è questa però la sede per un’analisi storica sulla nascita di questa particolare musica, anche se non si può disconoscere una specifica matrice, appunto afroamericana e legata a doppio filo alla storia della deportazione da parte dei bianchi degli africani come schiavi in America. Tra i bianchi jazzisti, ma comunque in una fase più tarda, ci furono anche gli italiani o gli appartenenti alla comunità ebraica etc. cioè musicisti non di colore ma comunque espressioni  di minoranze all’interno della società americana.

L’aver accennato alle origini del jazz consente di ritornare al tentativo di indagine sulle ragioni del particolare fascino che è in grado di esercitare. Il buon jazz ha sempre qualcosa di profondo in sé, di profondo e senza nome, che esiste virtualmente in ciascun essere umano. L’ascoltatore che ne conosca il linguaggio, si troverà “inchiodato” a sé stesso, a ciò che è, stregato, senza la sublimazione; il volo da sé di cui tanto la musica classica, quanto il pop e spesso il rock, sono capaci  non sono gli elementi che fanno la specificità del jazz, che finisce così col diventare un’implosione di energia, in grado tuttavia di manifestarsi all’esterno.

Dunque il jazz implode  senza esplodere, senza che sia perciò qualcosa di cui ci liberiamo. Finisce così col rimanere, col covare in noi come fuoco sotto la cenere, che riprende vita una volta rinvigorito dall’esterno. Per questo ci si “ammala” di jazz e di quel male non ci si riesce a liberarare né a fare a meno e può certo suonare ben strano il non volersi liberare di una febbre, di una malattia!

In quanto tale il jazz assurge per me a matrice di una nuova categoria dello spirito, nuova ed alternativa rispetto a quelle create dalla natura. Esistono brani o interpretazioni di alcuni brani, per i quali non vale qualsiasi associazione di significato che non sia quella con sé stessa. Si prenda ad esempio il celeberrimo brano di T. Monk “Round about midnight”. Ad un semplice primo ascolto lo si potrà definire triste, forse molto triste, bello, evocativo, raffinatissimo.

In realtà la grandezza del brano risiede a mio giudizio, nell’aver creato un’altra tristezza, archetipica, diversa da tutte le altre, con una propria autonoma essenza. E lo stesso potrebbe dirsi per altri standards, o di loro interpretazioni.

Ecco, personalmente ritengo che ciò che ha fatto sì che il jazz, da un’ evoluzione del blues, giungesse vivo e forte sino a noi, con un futuro ancora più glorioso all’orizzonte, sia nell’essere riuscito meglio degli altri generi musicali e talvolta di altre forme d’arte, nell’ambizioso progetto che già Saffo nel 600 a.C. si proponeva e cioè eternare quanto più possibile e nella maniera più efficace l’essere umano.

Rosamaria Fumarola

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano