Cultura
La voce di Ugo Foscolo nelle lettere di Jacopo
di SARA D’ANGELO
La letteratura italiana annovera molti romanzi epistolari consegnati al mondo da autori di stesure immortali. Ugo Foscolo, uno dei principali scrittori del neoclassicismo e del preromanticismo, consacra la penna scrivendo le 67 lettere di Jacopo Ortis, facendone un capolavoro mai imprigionato dalla polvere del tempo.
Il romanzo, prima opera epistolare della letteratura italiana, venne pubblicato per la prima volta a Milano nel 1802. Successivamente fu edito a Zurigo nel 1816 e a Londra nel 1817.
Chiaramente ispirato al Werther di Goethe, l’Ortis di Foscolo ha però una sua unicità che lo distingue dall’opera tedesca. La vicenda amorosa non è l’unico nutrimento del romanzo, il protagonista si muove dentro un appassionato confronto con l’ideale politico.
Il senso della patria, la sete di giustizia e di libertà è un fiume impetuoso le cui acque si riversano nella foce del sentimento. La storia di un popolo disegna il futuro di un uomo.
Il 17 ottobre 1797 Napoleone firmò il trattato di Campoformio. Con esso il generale Bonaparte cedette Venezia all’Austria e così chiuse da vincitore la prima campagna d’Italia. Reso sconfitto da questa delusione, il giovane Jacopo Ortis, un brillante studente universitario, sceglie la vita solitaria dopo essere stato spettatore del sacrificio della sua patria.
«Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?»
Sui colli Euganei Jacopo legge Plutarco, scrive al suo amico Lorenzo Alderani, passeggia sulla sua vita a passi lenti, quelli più cari agli spiriti profondi come il suo.
In una delle sue giornate, assorto dal balsamo curativo della lettura e dai racconti dei contadini che si avvicendano intorno a lui, Jacopo, ospite del paese, fa la conoscenza del signor T. che vive insieme alle sue due figlie, Teresa e la piccola Isabellina. Quanto cara gli è questa sua nuova e dolce compagnia, una gemma brillante per rischiarare la sua solitudine opaca. Per Jacopo la casa del signor T. diventa presto una giocosa bolla di vetro dove poter trascorrere ore spensierate e in perfetta letizia. Di tanto in tanto si affaccia la presenza di Odoardo, promesso sposo di Teresa, la ragazza è però destinata ad andare all’altare con il cuore piangente. Il matrimonio sarà un tetto sicuro, un riparo di certezza economica per la sua famiglia, ma per Teresa le nozze imminenti saranno un terremoto che devasterà la sua giovane vita, una scossa fatale che farà appassire i suoi sogni. Il signor T. rimane sordo al vergine ruscello di lacrime della figlia, la madre già da un anno ha abbandonato tutto e tutti rifiutandosi di essere testimone di uno scempio, il roseo destino della figlia sta per essere distrutto.
Il tormento di Teresa è disperazione per Jacopo. I suoi occhi chiedono aiuto, dalla sua bellezza e dalla sua grazia lui rimane impietrito.
E innamorato.
” Vicino a lei io sono sì pieno di vita che appena sento di vivere”.
Jacopo fa ritorno all’Università di Padova, ma è un’oasi apparente, il suo amore appena nato e già disgraziato, il tentativo della distanza fallisce, il ristoro dura appena due mesi, il sogno delle mani nude di Teresa e l’incubo di quell’uomo, Odoardo, lo stanno aspettando.
La partenza di Odoardo è per Jacopo e Teresa occasione per tessere una trama di teneri incontri, due passioni e un sentimento impaziente di scalare la vetta dell’immenso. L’uno davanti all’altra, al cospetto di colloqui d’amore e calde lacrime di sete avvilita.
“Or non sai tu che le lagrime di un uomo compassionevole sono per l’infelice più dolci della rugiada su l’erbe appassite?”
In una delle tante lettere inviate all’amico Lorenzo, il tema della compassione rivive nella rimembranza dell’infelicità di una giovane donna, Lauretta, una fanciulla dallo spirito disperato per aver perduto il suo amato Eugenio. Le braccia di Jacopo diventano per lei ali sotto cui trovare conforto, culla di sfogo alle lacrime che scendono copiose sulla sua spalla. I due sventurati piangono insieme e insieme compiangono l’amore perduto. Per Laura, Jacopo fu padre e fu fratello, la morte dell’infelice ragazza è preludio della sua stessa fine.
Teresa non leggerà questa lettera : ” Le farei più male che bene ” scrive Jacopo.
L’assenza di Odoardo è benedetta perché lunga. Spicchi di un sole di pace consentono alle due primavere incantate di vivere dentro un granello di tempo che, cosparso sulle loro anime divenute ormai calamite, diventa terreno fertile di un sentimento puro, vergine, a tutti evidente. Un solo, unico bacio suggella un momento destinato ad essere l’eco eterno del loro amore, nato in un giorno troppo vicino alla notte.
” Dopo quel bacio io son fatto divino.”
L’amore, quasi sempre germoglio di cura, è seme di malattia nel corpo di Jacopo. Il giovane infelice parte. Firenze, Bologna e altre città sembrano voler offuscare per un momento il viso angelico di Teresa. Ma quale città, quale licenza ha mai cancellato tanta purezza?
” Spesso io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il Cielo, e il Sole, e l’Oceano e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma se anche in mezzo alla universale rovina io potessi stringere un’altra volta Teresa, un’altra volta soltanto fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato.”
La distanza ha acutizzato il tormento anziché alleviarlo. La notizia che Teresa è ormai sposa di Odoardo lo devasta. Jacopo affida al viaggio del corpo un disegno che lo ricambia con l’immobilità del suo inferno.
Il ritratto di Teresa non lo abbandona mai, lo accompagna perfino durante l’incontro con Giuseppe Parini. Il poeta,”il vecchio venerando” placa la rabbia di Jacopo, in guerra con sé stesso e con il mondo. A nulla è valso vagabondare per l’Italia, l’auspicio di libertà per la sua patria è stato distrutto. Il potere violenta l’uomo, distrugge il suo ideale macchiando la speranza con il verme della dipendenza.
La voce di Foscolo si posa sulle labbra del Parini. Entrambi intellettuali trovano in Jacopo un allievo che assorbe con fiducia i consigli dettati dalla saggezza, ogni parola toglie spazio al residuo di un dubbio.
” Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? Nel nulla; o in un’altra vita diversa sempre da questa. Ho dunque deliberato; non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba.”
L’azione luttuosa che Jacopo sta per consumare alle sue carni è riservata a chi, come lui, è trascinato nel baratro sconfitto dalla fame di libertà e di giustizia. Il tema politico, presente quasi in ogni pagina del romanzo, è solo un anello di una lunga catena forgiata di ideali perduti, il sogno infranto della patria, consumarsi d’amore per Teresa, condividendo con lei il proprio destino.
L’addio agli affetti più cari, alla sua cara madre, la lettera a Teresa e all’amico Lorenzo Alderani sono tessere isolate di un annuncio funesto. Così la vetta, così il precipizio. Jacopo ha già preparato la valigia vuota per il suo ultimo viaggio, il treno della morte è fermo alla stazione della sua risoluta volontà. Jacopo ha deciso, ha scelto di vivere uccidendo il miracolo che non vedrà mai accadere. Teresa non sarà mai sua, Teresa è di un altro, Teresa è la vittima sacrificale di una volontà despota. Jacopo cade in ginocchio all’altare della sua pena da uomo e da intellettuale, affossa il pugnale nel cuore. Un pugnale crudele fratello maggiore della spina che è cresciuta silenziosa dentro il suo petto.