Cultura
Nel giorno della Liberazione parlerò di mia madre
di MARIO GIANFRATE
Nell’anniversario della Liberazione dirò di mia madre, Amalia.
Ripeteva spesso: “Quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto perché sentivamo di farlo, malgrado i rischi. Ma ho l’impressione che molti abbiano dimenticato”. Per questo scriverò di lei.
Inizierò dall’epilogo, da quella immemorabile giornata dell’aprile 1945. A Torino è stato dato l’ordine che sancisce l’inizio dell’insurrezione per l’una – in codice, “Aldo dice 26×1” -. Sulla città, dalle diverse vallate, confluiscono i partigiani.
Mia madre ha preso posto nell’ultima camionetta della lunga fila, tra il conducente del mezzo e un giovane partigiano. Poco fuori il paese li attende un’imboscata dei “repubblichini”; alcune raffiche di mitragliatrice e quel giovane partigiano cade riverso, con il volto rigato di sangue, tra le braccia di mia madre. La camionetta inverte la marcia e fa ritorno al paese per andare a seppellire quell’ultimo caduto dal nome ignoto, morto per la Patria.
Mia madre non aveva a quel tempo una coscienza politica. La sua era stata una educazione cristiana, non bigotta; ma è chiara in lei la consapevolezza di un impegno in prima persona – quali che ne siano le conseguenze e i pericoli – per scacciare i tedeschi e i fascisti che imperversano nella zona.
E’ staffetta partigiana, tiene cioè i collegamenti tra le diverse bande operanti nel territorio. Ha avuto lei l’incarico di avvisare i giovani rimasti in paese, a Boves, che è in procinto un rastrellamento da parte dei fascisti e dei tedeschi. Viene però preceduta. In prossimità di Boves vede il fumo delle cascine incendiate, delle stalle nelle quali sono rinchiusi gli animali che bruciano vivi. Riuscii a farla scrivere: “Iniziarono ad interrogare la gente radunata nella piazza del paese, per sapere dove si nascondessero i partigiani ma nessuno, malgrado gli schiaffi ed i calci, rispose alle loro domande. Fu allora che i tedeschi, ma soprattutto i repubblichini di Salò che portavano il teschio sul loro fez, sfogarono la propria rabbia sparando ed uccidendo gente inerme”.
Scene raccapriccianti in cui si imbatterà spesso, come nella giornata del Corpus Domini 1944 a Bagnolo Piemonte: “Presero quattro giovani di diciotto, diciannove anni e li impiccarono ai balconi, mani e piedi legati, ma anziché usare la corda li appesero con quei grossi ganci che usano i macellai per appendere la carne, conficcati nel collo. Dopo parecchie ore, quando i fascisti andarono via e ci potemmo avvicinare, uno dei quattro partigiani, nome di battaglia Genova, ebbe ancora la forza di invocare “mamma””.
Più volte fermata, a lungo interrogata, tenuta in ostaggio riesce a fuggire con l’aiuto di uno storpio che è in realtà un partigiano; nasconde per mesi un giovane militare meridionale – che poi diviene suo marito, mio padre – sbandato dopo l’8 settembre e che non ha aderito, come obbligano i bandi pubblici, alla RSI, fin quando la delazione di una spia fascista lo fa catturare e deportare nel campo di concentramento Dachau.
Aveva ancora tanta rabbia dentro da alterarsi perché la scuola non insegna ai giovani questa gloriosa pagina di storia recente che è la Resistenza. Temeva che gli anziani avessero dimenticato e i giovani non sapessero.
Ho scritto di lei non per rinfocolare odio ma perché nessuno dimentichi che tutto ciò è potuto accadere, che tanti giovani un giorno, senza nulla chiedere e nulla pretendere, salirono sulle montagne, lottarono, caddero dinnanzi ai plotoni di esecuzione o nei lager tedeschi, per riconquistare la perduta libertà e per riscattare l’Umanità dalla vergogna e dal terrore in cui il fascismo e il nazismo l’avevano gettata.