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26 Maggio 2025

A Gaza la narrazione è da sempre parte del conflitto

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Di Rosamaria Fumarola

La considerazione che le immagini restituiscano il reale e siano sufficienti da sole a suscitare sentimenti di adesione o prese di distanza in chi le osserva è stato ampliamente smentito dalla storia in più di un’occasione. È infatti l’uso delle immagini a produrre reazioni. È il racconto che si serve di immagini a decretare il tipo di risposta da parte del pubblico. Lo sapevano bene i principes romani come Traiano o Costantino, così come Goebbels o Mussolini in tempi più recenti. Ci sono ad esempio conflitti come quello israelo-palestinese che durano da decenni e che, nonostante la barbarie prodotta hanno stentato ad incontrare l’interesse autentico e generalizzato del resto del mondo e questo benché il resto del mondo sia stato sempre raggiunto dalle immagini che lo raccontavano. È evidente che la narrazione dei fatti anche in questo caso non sia stata scevra da interessi politici, che ne hanno decretato in qualche modo il fallimento della risposta da parte di quanti di quel racconto hanno fruito. In occidente le immagini della tragedia del popolo palestinese, del sangue dei suoi bambini uccisi ci parlavano di esseri umani diversi e lontani da noi, in condizioni di perenne indigenza, col colore della pelle diverso, secondo una modalità narrativa che affonda le sue radici nel nostro passato coloniale. Di recente tuttavia i media hanno restituito anche racconti differenti, come quelli dei parlamentari dell’opposizione italiana (MOVIMENTO 5STELLE, PD, AVS, PIÙ EUROPA) che hanno raggiunto il valico di Rafah per manifestare solidarietà al popolo di Gaza. Non potendo attraversare il valico, i rappresentanti politici  hanno sostato davanti alle porte chiuse, parlando delle condizioni disumane in cui a pochi metri uomini, donne e bambini erano costretti a vivere a causa della scellerata politica criminale di Israele. È accaduto così che l’urlo di disperazione di Gaza sia stato udito con più forza benché solo evocato, che l’orrendo ghetto palestinese abbia parlato di sé suscitando il raccapriccio di chi guardava le porte invalicabili oltre le quali le leggi dell’umana pietà non hanno trovato posto. Noi e loro finalmente più vicini, per immaginare la fine della barbarie partendo dall’ accettazione della tragedia nella sua misura reale ed innegabile, quella di un ghetto pensato per lo sterminio di un popolo ricorrendo alla sua distruzione, affamandolo, privandolo di tutto secondo un piano sempre più simile alla Shoah. Mancano i forni crematori certo, ma si dia tempo al tempo. Va sottolineato infatti che la mostruosa aberrazione alla quale stiamo assistendo è il risultato di un atavico disimpegno ad intervenire di tutto l’Occidente, che si è sempre trincerato dietro un senso di colpa di facciata per quanto accaduto nell’ultimo conflitto mondiale. È più rispondente al vero infatti che esiste una rete di interessi, soprattutto economici, che tiene lontani i tanti che avrebbero potuto intervenire efficacemente negli anni ed evitare lo sterminio dei  palestinesi. La ragione della tragedia di oggi sta nell’astensione decennale di ieri che ha prevalso nei rapporti tra stati che si definiscono civili, ai danni di esseri umani raccontati come meno degni di autodeterminarsi. È il colonialismo baby e quelle incursioni di parlamentari, sudati ed in affanno, che sostavano davanti alle porte chiuse di Gaza, senza saperlo lo hanno lasciato ben immaginare, servendosi di una vicinanza all’ inferno che ci ha consentito di provare disprezzo autentico per chi di quel massacro è da sempre il demiurgo.

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, blogger, podcaster, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano