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Belli i dissing, ma nulla di nuovo
I dissing rispondono a una serie di bisogni emotivi e sociali che fanno parte dell’essere umano: la voglia di confronto, la competizione, la scoperta dell’altro e l’intrattenimento. Se contestualizzati bene, potrebbero aiutare gli studenti a studiare più volentieri la letteratura.
di Alessandro Andrea Argeri
La parola “dissing” è un termine tecnico proprio della cultura underground per indicare una faida tra rapper, tendenzialmente una gara di insulti in quanto questi cercano di prendersi in giro, criticare o addirittura insultare gli avversari. Chi è della mia generazione è cresciuto col dissing tra Vacca e Fabri Fibra: ai tempi se ne dissero di ogni, dopodiché Fibra sparì per un lungo periodo prima di ricomparire con Squallor, a mio parere il suo miglior album, mentre Vacca finì nel dimenticatoio. Poi ancora Salmo contro Luché lo scorso anno, Kendrick Lamar vs Drake questa primavera, fino agli attuali Tony Effe e Fedez di cui ha parlato anche il TG1.
Perché ci piacciono i dissing? La sociologia potrebbe scrivere intere biblioteche a riguardo. I dissing in fondo rispondono a una serie di bisogni emotivi e sociali insiti nell’essere umano: la voglia di confronto, la competizione, la scoperta dell’altro, l’intrattenimento. Gli esseri umani sono naturalmente attratti dal conflitto, dunque quando in un dissing due persone si affrontano in modo diretto è come assistere a uno scontro verbale dove le parole diventano armi. È lo stesso motivo per cui amiamo i reality show pieni di litigi o i dibattiti accesi: c’è una tensione emotiva a coinvolgerci per tenerci incollati allo schermo.
Ma nel caso dei rapper c’è una variante in più: la bravura tecnica. Un dissing è spesso una sfida di abilità lirica; i rapper cercano di superarsi non solo con gli insulti ma anche con lo stile, le rime, la creatività. Non è solo questione di offendere, o almeno non dovrebbe; si tratta piuttosto di attaccare in modo intelligente.
I dissing portano alla luce aspetti personali dei contendenti. Segreti, critiche o attacchi alla vita privata diventano una forma di “gossip musicale”. In un certo senso tali scontri soddisfano la curiosità morbosa di scoprire le debolezze degli altri; alla fine però ascoltarli può essere liberatorio: gli artisti dicono cose che forse noi non potremmo mai dire apertamente, sfogando rabbia, frustrazione e insoddisfazione. Spesso ci identifichiamo con uno dei rapper e viviamo la sua battaglia come se fosse la nostra. Ecco allora un’altra caratteristica: l’effetto catartico tipico della tragedia greca. Dopotutto un dissing è anche puro intrattenimento. Si crea un senso di attesa e suspense, come quando in una gara sportiva vogliamo vedere chi vincerà o chi sarà in grado di sferrare il colpo migliore.
I dissing sono belli quindi, ma in fondo nulla di nuovo. Qualcosa di analogo si ritrova già nell’antichità, ad esempio negli epigrammi del poeta latino Marziale. Celebri quelli in cui attaccava i suoi rivali, come il pensiero rivolto a un tale Francesco: “Scrivi molti versacci; però, alla fine, non pubblichi mai niente./ Che caso strano: tu sei, allo stesso tempo, cretino e intelligente” (Apophoreta, VIII, 20), oppure “Spia, traffichino, imbroglione; sagace addestratore/di critici d’accatto; maligno calunniatore;/presenzialista, succhiacazzi, sordido coboldo:/ però, malgrado il gran daffare, sei sempre senza un soldo”, rivolto a un certo Massimo (XI, 66). Oggi nessun insegnante proporrebbe ai suoi alunni di tradurre dal latino versi simili, eppure nell’antica Roma questi erano molto letti, anche più dei pedanti poemi epici da cui sono tratte molte versioni. Il cittadino romano medio leggeva più gli insulti Marziale delle cronache di Tacito o delle auliche orazioni di Cicerone.
Ancora più iconica è la famosa “tenzone” tra Dante Alighieri e Forese Donati. Si scrissero di tutto in quel turbolento decennio di fine XIII secolo: il Sommo Poeta accusò il rivale di impotenza, di essere un pezzente, di essere goloso, di essere un ladro, di provenire da una famiglia dalla dubbia moralità. Di rimando, Forese rinfacciò a Dante di essere un codardo incapace di vendicare le offese subite dai genitori, di essere figlio di un usuraio ma allo stesso tempo così povero da rischiare di finire all’ospizio dei Pinti, un ospedale destinato all’accoglienza degli indigenti fondato proprio dalla famiglia Donati.
Chi vinse quel “dissing”? Per i contemporanei Dante, ma per la Storia Forese: se non avesse attaccato il sommo Poeta, oggi nessuno lo ricorderebbe. L’autore della Commedia doveva essersene accorto già in vita, per questo anni dopo inserì il rivale nella VI cornice del purgatorio, tra i golosi, condannato a soffrire la fame col volto scavato da una spaventosa magrezza, d’altronde “attaccare è umano, perseverare è dantesco”. Una volta tutto questo veniva chiamato “agone poetico”, ma oggi forse la definizione risulterebbe eccessiva, soprattutto se addossata a certi rapper, come appunto Fedez o Tony Effe.
Tuttavia, se riuscissimo a contestualizzare gli autori anche attraverso questi paragoni, gli studenti imparerebbero meglio, o perlomeno più volentieri. Di sicuro sarebbe un ottimo modo per avvicinare i giovani alla letteratura.
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