Esteri
Pessime notizie per Zelensky: la carenza di munizioni non è risolvibile nel breve dall’Occidente
E’ da maggio che le luci rosse dell’allarme si sono accesi nella stanza presidenziale di Zelensky.
Di Fulvio Rapanà
E’ da maggio che le luci rosse dell’allarme si sono accesi nella stanza presidenziale di Zelensky. La prima si è accesa quando la Commissione Europea ha autorizzato gli stati membri ad utilizzare una parte del PNNR per produrre munizioni. Successivamente la questione delle bombe a grappolo che gli Usa e GB hanno prima rifiutato poi fornito all’Ucraina creando un pessimo precedente reputazionale e dividendo la Nato sull’ opportunità o meno di fornire questo tipo di munizioni vietate dalle normative internazionali. Per ultimo nel mese di agosto alle dichiarazioni Nato di “fermo e l’incrollabile sostegno alla sovranità dell’Ucraina per tutto il tempo necessario” , si è contrapposta l’evidenza di crepe sulla capacità degli alleati Usa in primis di fornire agli ucraini armi e munizioni per un “tempo e per quantità illimitate”. Per Zelensky i conti non tornano più e all’alta retorica, degli alleati, non corrisponde la realtà militare sul campo. Dubbi che nel mese di settembre si sono concretizzati e ampliati: la NATO ha ammesso che le munizioni scarseggiano e testualmente “si tocca il fondo del barile”. Questo ha consigliato Zelensky di non sprecare le vite di tanti giovani e trasformare la controffensiva in un sostanziale armistizio di fatto con i russi.
Le munizioni. E’ da tempo che in questo conflitto Zelensky si lamenta dell’insufficienza delle forniture di munizioni e di armi anticarro e antiaeree portatili. Ma già dal mese di Gennaio giornali come il NYT e WP riportavano pareri di generali in pensione sulla difficoltà, per la difesa Usa, di rifornire gli ucraini con una certa continuità di materiale bellico. In modo meno palese anche altri alleati come Francia e GB hanno posto il medesimo problema della difficoltà di produrre e consegnare agli ucraini la quantità di munizioni necessarie. La controffensiva ucraina che doveva partire a maggio è slittata più volte proprio per la difficoltà di supportarla con le armi e le munizioni necessarie. La realtà è che in tutto l’occidente e particolarmente negli Usa non vi è una industria bellica di base che possa produrre una quantità di materiale sufficiente ad alimentare una guerra in qualche modo circoscritta come quella fra Russia e Ucraina. L’occidente non ha finito le munizioni in assoluto ma ha esaurito quelle disponibili senza dover intaccare seriamente le riserve strategiche dei rispettivi eserciti e soprattutto l’ industria bellica non è organizzata per produrle materiale con la stessa velocità con cui vengono utilizzate sul campo di battaglia.
Per gli USA, e più o meno per tutti gli eserciti occidentali, la carenza di equipaggiamento e munizioni è cronica e si era già evidenziata nella guerra in Vietnam ma ancora di più si è fatta sentire nelle guerre in Afganistan e Iraq. Il motivo principale sta nella “privatizzazione” della produzione bellica statunitense passata, nel periodo della seconda guerra mondiale, da una gestione al 93% statale ad una produzione attuale quasi totalmente in mano alle “Big Five” dell’industria bellica Boeing,General Dynamics, Lockheed Martin, Nortrhop Grumman, Raytheon e ai subalpaltatori di queste. Fino agli anni ’60 la maggior parte delle fabbriche che producevano per la difesa erano di proprietà statale e gestite dal governo o da aziende private. Successivamente al Vietnam dietro spinte bipartisan sempre più forti sul Congresso fu avviata una generale rivisitazione del ruolo e degli obiettivi dell’industria bellica statunitense favorendo gli investimenti privati. Negli anni ’80 e ’90 la produzione bellica fu caratterizzata da tre elementi : la sempre maggiore presenza di progetti messi in piedi dall’industria privata che implicitamente decideva la direzione che prendeva la difesa statunitense; una dipendenza crescente da fonti di approvvigionamento estere; una graduale ma costante diminuzione della forza lavoro manufatturiera nel settore della difesa passata da 3,2 mil. di addetti all’inizio degli anni ’80 agli attuali 1,1 mil.
Con Reagan l’industria bellica ebbe un notevole impulso da un punto di vista della spesa passata da $ 176 mld. dell’1981 a $ 325 mld. del 1990 ma con una ulteriore riduzione della presenza diretta dello stato nella produzione bellica. Reagan diede la priorità e grandi investimenti a progetti sperimentali, come il programma di difesa da attacco nucleare soprannominato “Star Wars” costato 30 mld. di dollari e mai realizzato, o aerei molto avanzati come il bombardiere B-2 o il caccia F-22 stealth, rispetto ad acquisti meno affascinanti come l’armamento di terra e le munizioni.
Anche dopo l’11 settembre e durante le guerre in Afganistan e Iraq pur avendo verificato l’indispensabilità, per vincere una guerra, di una azione a terra di truppe con artiglieria mezzi corazzati e munizioni poco o nulla è cambiato negli indirizzi della difesa sempre più impegnata a perseguire articoli ad effetto di altissimo costo, come il programma F-35 Joint Strike Finghter che alla fine costerà 1,6 triglioni di dollari o il bombardiere stealth B-21 o il missile balistico Sentinel LGM-35.
Settanta anni di dismissioni statali e di privatizzazioni, la ricerca di maggiori profitti con meno costi e meno dipendenti, la rincorsa a progetti avveneristici, che probabilmente mai vedranno la realizzazione o il campo di battaglia, hanno portato la Difesa USA alla situazione attuale ad avere, in pochi mesi e per una guerra abbastanza delimitata, quasi esaurito la riserva di munizioni, soprattutto per l’artiglieria e le armi anticarro, e probabilmente si sono intaccate anche una parte delle riserve strategiche.
La notizia pessima per l’Ucraina è che né gli USA, né le altre industrie belliche degli alleati Nato, hanno alcuna possibilità di correggere nel breve questa situazione e rimettere in piedi una industria bellica di base prima di 3 o 5 o forse anche 10 anni senza un intervento diretto dello stato. I punti critici presenti negli anni ’80 e ’90 si sono ulteriormente aggravati: scarsità di manodopera specializzata; dipendenza sempre maggiore dalle catene di approvvigionamento estero sia dei prodotti finiti che dei metalli per la produzione di semilavorati da inserire nelle catene di approvvigionamento.
Sul primo punto la scarsità di manodopera qualificata per la difesa deriva dalla generale carenza di manodopera nell’industria manufatturiera americana, è la diretta conseguenza della parziale deindustrializzazione dell’economia e dell’industria manufatturiera degli Stati Uniti. Per migliorare la situazione gli Usa dovrebbero partire mettendo mano ad una generale riforma dell’intero mondo scolastico, con un intervento molto più incisivo dello stato sovvenzionando l’istruzione a tutti i livelli particolarmente di quelli superiore proprio come fece Eisenhower nel ’57, dopo il lancio dello Sputnik che inaugurò la corsa allo spazio, per cercare di superare l’Unione Sovietica non aumentò il budget della difesa ma firmando il National Defense Education Act si concedevano borse di studio e prestiti governativi ai giovani americani che preferivano facoltà universitarie tecniche e scientifiche e realizzavano progetti di studio utili alla difesa. Ma su questi argomenti Biden e qualsiasi amministrazione democratica si troverà sempre una forte opposizione dei Repubblicani totalmente contrari a una ingerenza dirigista dello stato nell’istruzione e per certi versi anche nella difesa. Le armi attuali compreso il munizionamento sono manufatti pieni di elettronica e chip che richiedono personale altamente specializzato con livello di scolarizzazione molto alti. Sul secondo punto Biden ha le mani più libere e con l’appoggio di una parte dei Repubblicani ha mosso pedine importanti in termini di investimenti varando l’Inflation Reduction Act (Ira), il Chips Act e Bipartisan Infrastructure Law (BIL) . Sono misure molto ben finanziate che hanno un triplice obiettivo: dare impulso all’industria manufatturiera e di conseguenza ad una produzione bellica di base ; rendere l’industria Usa e più di tutte quella bellica meno dipendenti dalle catene di approvvigionamento estero di chips e di altro materiale strategico; riportare sul suolo Usa tutte quelle produzioni di aziende americane e non che hanno trovato conveniente delocalizzare, soprattutto in Cina. Belle intenzioni con atti concreti, tanta disponibilità di denaro ma resta la domanda di base: gli Usa hanno le risorse umane per supportare un forte livello di industrializzazione 4.0 che necessita di altissima professionalità e scolarizzazione? In questo momento la risposta è negativa, ma si sa agli americani hanno sempre trovano le soluzioni a momenti difficili e complessi.
La notizia per gli ucraini sarebbe ottima ma gli esperti di politica industriale calcolano che per ottenere i primi concreti risultati necessitano minimo 3, 5 anni. Per ora dovranno accontentarsi delle bombe a grappolo.