Attualità
Noi italiani siamo parte di un Paese intollerante?
Negli Stati Uniti è stato finalmente condannato a 22 anni e mezzo di carcere Derek Chauvin, l’assassino di George Floyd durante un arresto il 25 maggio 2020. In Italia invece, fatichiamo ancora ad approvare un decreto legge pensato apposta contro i crimini d’odio. La domanda allora sorge spontanea: noi italiani, siamo un paese intollerante?
di Alessandro Andrea Argeri
Negli Stati Uniti è stato finalmente condannato a 22 anni e mezzo di carcere Derek Chauvin, l’assassino di George Floyd durante un arresto il 25 maggio 2020. In Italia invece, fatichiamo ancora ad approvare un decreto legge pensato apposta contro i crimini d’odio. La domanda allora sorge spontanea: noi italiani, siamo un paese intollerante?
Derek Chauvin è l’ex agente di polizia condannato per tenuto il ginocchio premuto sul collo di George Floyd, con la conseguente morte. La condanna per l’omicidio Floyd c’è, è storica, risuona come un grido contro le discriminazioni, ma non basta. Basti pensare a quanto in realtà il risultato dell’udienza finale non fosse affatto scontato.
Già il giorno dopo l’omicidio di Floyd infatti, la polizia di Minneapolis aveva tentato di descrivere l’accaduto con una lettera dal titolo: “uomo muore dopo un malore durante un’integrazione con la polizia”, in cui la morte della vittima veniva in un certo senso “insabbiata”, ovvero ricondotta quasi esclusivamente all’uso di sostanze stupefacenti oltre che a problemi cardiaci. Tuttavia, tra i 45 testimoni sono comparsi anche alcuni poliziotti. Quest’ultimi hanno testimoniato contro Chauvin, le cui violenze sono state dichiarate “in assoluta violazione” oltre che “totalmente inutili”. In pratica, per la prima volta nella storia è crollato il “muro blu del silenzio”, concetto secondo il quale gli agenti di polizia hanno il compito “informale” di coprirsi tra loro in caso di errori o imprevisti.
Eppure il processo non basta, perché chiuso quest’ultimo, il sistema rimane comunque. Dall’inizio del ventennio ad oggi, Chauvin è solo l’ottavo poliziotto condannato per omicidio, nonostante oltre 16 mila morti causate dalla polizia statunitense. Infatti, sebbene siano centinaia ogni anno le persone uccise dalla polizia (319 da inizio 2021), è estremamente raro che un agente venga denunciato per aver ucciso qualcuno in servizio. Ad oggi inoltre, nonostante le sempre più frequenti proteste dell’immensa comunità Black Lives Matter, le violenze non cessano, soprattutto a discapito dei cittadini “di colore”.
Il caso statunitense ha avuto un impatto mediatico mondiale, tanto da poter offrire un paragone, per contrasto o per similitudine, con l’Italia, dove, mentre sembriamo viaggiare verso l’uscita dalla pandemia, siamo tornati a parlare di migranti, del nostro diritto di cacciarli anziché di un essere umano di venire integrato degnamente.
Ma l’italiano medio ha occhi solo per il pallone, a maggior ragione durante l’europeo, quindi, anziché approvare un semplice decreto legge per la tutela dei diritti oltre che della libertà d’espressione, ci chiediamo se sia giusto o no “costringere” la nazionale a inginocchiarsi. Un simbolo diventa importante in base al valore che noi gli attribuiamo, ma allora, perché non valorizzare un semplice gesto? Mettiamo i rossetti sulle guance per sensibilizzare contro la violenza sulle donne, indossiamo maglie con la scritta “respect”, coloriamo gli stadi, i loghi, i palloni, le divise, eppure difronte a tutta Europa non vogliamo inginocchiarci per mostrare solidarietà verso diritti umani, nei confronti di tante persone ogni giorno vittime di discriminazioni. Un piccolo gesto, ma dalle potenzialità comunicative impressionati, specialmente per gli spettatori più piccoli. Nulla sfugge alla propaganda. La politica è sovrana, persino nello sport.
Sia chiaro: l’Italia storicamente non è un paese razzista, ma lo è diventato in tempi recenti, con l’aggravarsi della crisi economica, con l’aumentare del malcontento. Alcuni esempi sono il suicidio del giovane Seid, o il pestaggio al medico fiscale di Chioggia di origini camerunense, picchiato, inseguito, percosso di nuovo, minacciato di morte se solo avesse avuto il coraggio di denunciare quanto gli accadeva. Ma prima ancora dei migranti, siamo stati razzisti nei confronti di altri italiani, quando i meridionali emigravano al nord a portare manodopera in cerca di lavoro.
Di fronte all’evidenza, non basta più rifugiarsi dietro l’alibi di “accogliere tutti”, perché senza l’affaccio sul mediterraneo il nostro ruolo di “porto sicuro più vicino” sarebbe toccato a qualcun altro. La narrazione di una certa classe politica del migrante criminale ha sicuramente contribuito ad aumentare l’intolleranza popolare. Ma un uomo, costretto a sopravvivere per strada, senza viveri, né lavoro, né vestiti, mentre viene costantemente sottoposto agli sguardi di disprezzo dei passanti, in un paese straniero dove non esiste mobilità sociale, in cui l’integrazione è un miraggio, come può non impazzire?
L’unico modo per uscirne è riformare lo Stato, o meglio: “aggiornarlo” con leggi, educazione, cultura, riforme svincolate dalla semplice retorica utile solo ad accumulare voti. Se vogliamo un’Italia migliore, dobbiamo costruire un sistema migliore, sia per l’italiano sia per lo straniero.
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