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Stato di guerra

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di VINCENZO DE ROBERTIS

Siamo in una situazione che televisioni, giornali e media ci presentano sempre di più come un vero e proprio “stato di guerra”. Uno “stato di guerra” pieno di contradizioni, dove non è sempre chiaro chi è il nemico e come va combattuto.


Infatti, come in ogni guerra che si rispetti, abbiamo un “nemico”, che nelle guerre guerreggiate è in genere un altro Stato, mentre oggi noi combattiamo contro un’entità invisibile, un virus, pronto a colpirci “a tradimento”, anche attraverso l’azione involontaria della persona a noi più vicina e più cara.

Come in una vera e propria guerra viviamo una situazione di “mobilitazione generale“, in cui la popolazione, impaurita ed intimidita, deve ubbidire alle disposizioni dell’Autorità, pena gravi sanzioni, oggi comminate da Forze dell’Ordine che valutano soggettivamente e discrezionalmente la gravità di ogni singolo comportamento.

Sanzioni che colpiscono violentemente il cittadino che si fa, magari da solo,  la corsetta nel parco, e per questo diventa l’irresponsabile che causa il prolungarsi del periodo di quarantena collettiva, attirandosi l’odio di tutti, mentre si consente l’attività produttiva di una grossa azienda di lavorazione carni, come la Siciliani a Palo del Colle, dove lavorano più di 500 operai, senza i doverosi controlli sulle misure di prevenzione adottate a tutela della salute dei lavoranti, per cui sono stati accertati finora più di 30 casi di contagio, sperando che non aumentino.

Come in ogni guerra (ed è avvenuto anche nella II guerra mondiale) se non sei preparato al conflitto, poi finisce che mandi gli Alpini in Russia a morire con le scarpe di cartone ai piedi. Così in questa guerra contro il virus, dopo aver distrutto la sanità pubblica, riducendone i finanziamenti e preferendole la sanità privata in convenzione (il cui scopo principale non è la tutela dell’ammalato, ma il profitto privato), non puoi meravigliarti se registri una progressione spaventosa di morti, dovuta alla mancanza di strutture sufficienti.

Come in ogni guerra che si rispetti la “coesione nazionale” è determinante ed il patriottismo è il collante, per cui Inno nazionale a go-go (variante “Va pensiero” al Nord; minoritaria “Bella ciao”, troppo politicizzata!), tricolore su tutti i balconi e scritte “Ce la faremo”.

Ma su questo punto una domanda nasce spontanea: di quale Patria stiamo parlando?

Finora abbiamo detto peste e corna dei sovranisti, affermando che l’UE era la nostra nuova patria ed, invece, questa si è per l’ennesima volta dimostrata incapace di elaborare una strategia sanitaria unica per l’attacco al nemico comune, il virus, quando non si è addirittura approfittata della situazione di difficoltà economica dell’Italia, con l’obbiettivo di occupare quote di mercato.

Queste alcune delle contraddizioni che nasconde questo “stato di guerra”, artatamente creato nell’opinione pubblica.

Ma la Storia ci insegna che la guerra porta sempre con sé grandi sconvolgimenti sociali.

Le due guerre mondiali, che si sono combattute nel secolo scorso, hanno finito per aprire gli occhi a quanti sono stati comandati di andare a crepare per interessi che non erano i propri. Questo ha finito per determinare grosse crisi sociali, che nel primo dopoguerra consentirono in Italia, dopo il cosiddetto “biennio rosso”, la vittoria del fascismo e parimenti la sua disgregazione e sconfitta nel secondo dopo-guerra.

E’ auspicabile che questo nuovo “conflitto mondiale” apra gli occhi di noi tutti e ci faccia riflettere su alcune cose, per evitare che il “dopo-guerra”  riproponga gli stessi mali, magari aggravati, per i quali abbiamo già pagato un alto costo in vite umane e forse un costo ancor più alto in futuro lo pagheremo  per l’economia.

La crisi sanitaria, che si è manifestata con numeri enormi di infettati e di morti, specialmente nel Nord del Paese, impone una riflessione che ripensi al rapporto futuro fra il pubblico ed il privato in sanità, al netto delle scelte omicide, assunte da Governo, Regioni e Comuni, come quella di tenere aperte le fabbriche dopo le prime manifestazioni di contagio. Il personale operante nella struttura pubblica ha subito il peso più grave in termini di morti, di carichi di lavoro e di rischi, mentre le strutture private sono state quasi del tutto assenti, nonostante che in passato abbiano succhiato in misura considerevole risorse pubbliche. Dobbiamo chiederci se per il futuro la scelta di finanziare il privato a danno del pubblico sia ancora tollerabile, dato che il rischio pandemie non pare proprio isolato.

In questa pandemia è emerso il limite di organizzazione di tutto il sistema sanitario, che privilegia l’ospedalizzazione, penalizzando la medicina territoriale, per cui dove i numeri dei contagiati sono stati più alti si è potuto garantire l’assistenza solo a chi aveva sviluppato più gravi condizioni di salute ed era in molti casi prossimo al decesso, mentre si è rifiutato il ricovero a chi non era in condizioni gravi, lasciandolo molto spesso morire in casa senza assistenza. Dobbiamo chiederci per il futuro se questo modello sanitario è il più efficiente o se invece non vadano destinate maggiori  risorse ai presidi territoriali e di base.

In questa pandemia si è scontato il danno provocato da una politica sanitaria che ha fatto pagare alla sanità pubblica il prezzo più alto della cosiddetta “austerità” finanziaria,  con il taglio del personale medico ed infermieristico e con la chiusura di ospedali piccoli e periferici. Dobbiamo chiederci se per il futuro ha senso trattare gli ospedali come se fossero delle aziende, dove il valore del profitto è più importante del valore di una vita umana.

In questa pandemia è emerso tutto il danno che è derivato alla salute pubblica da una mancanza di coordinamento fra Stato Centrale e Regioni in tema di misure sanitarie. Dobbiamo chiederci se per il futuro ha ancora un senso parlare di autonomia regionale differenziata in tema di sanità, così come per gli altri temi e materie contenuti nel Titolo V della nostra Costituzione, modificato con la riforma del 2001 o se, invece, non sia da rivalutare il ruolo di un potere decisionale centrale e nazionale.

Se queste sono alcune delle domande da porsi in tema di sanità, non meno importanti sono le domande da porsi in tema di economia,

E’ evidente che la crisi economica che si prospetta nel prossimo futuro, a seguito del fermo quasi totale delle attività, necessita di essere affrontata con una forte iniezione di liquidità finanziaria, per riavviare il motore di una macchina produttiva, che, a differenza dei periodi seguenti alle vere e proprie guerre, non vede l’apparato industriale distrutto, ma al contrario intatto e pronto a riprendersi subito.

La prima domanda  è : da dove prendere i soldi ed a quali condizioni.

L’Italia, si sa, ha un alto debito pubblico, nonostante l’avanzo primario le abbia garantito da diversi decenni entrate fiscali superiori alle uscite. Si stima che il nostro debito pubblico crescerà dal 130 al 150-160% del PIL entro la fine del 2020. Se non saranno modificati i Trattati Europei, che hanno finora imposto l’austerità di spesa agli Stati nella prospettiva di una riduzione del loro debito, potremmo trovarci sotto ricatto della Commissione europea, come accadde alla Grecia qualche anno fa.

Da quando la Banca d’Italia ha smesso di comprare i titoli di debito pubblico, il nostro debito è finito in mano ai privati ed attualmente è posseduto in prevalenza da Banche italiane che finora hanno attinto fondi dalla BCE a tassi vantaggiosi con i quali hanno acquistato CCT e BTP italiani a tassi più che remunerativi. In altri termini, il popolo italiano ha subito i ricatti della Commissione europea in tema di parità di bilancio, fiscal compact, ecc. mentre le Banche italiane si arricchivano per gli alti tassi di interesse pagati dallo Stato.

Il debito privato italiano, cioè l’indebitamento delle famiglie, è fra i più bassi d’Europa, nonostante ci sia stata una spinta notevole all’indebitamento per consumi privati da parte delle imprese finanziarie. I depositi bancari privati delle famiglie e delle aziende italiane ammontano a circa il doppio del debito pubblico. Ciò significa che teoricamente l’Italia potrebbe autofinanziarsi l’incremento del debito pubblico per far fronte alla ripresa economica dopo la pandemia, contando su sé stessa.

Anche in ottemperanza ai Trattati europei. lo Stato italiano non ha una Banca pubblica che possa svolgere un’attività di racconta ed impieghi a vantaggio della collettività, cosa che in questi frangenti si rivelerebbe di particolare utilità. Lo Stato ha solo delle partecipazioni in alcune Banche, frutto degli interventi di salvataggio a seguito della politica creditizia speculativa di questi istituti.

Il Governo si sta battendo perché la Commissione europea si faccia carico della situazione debitoria che coinvolgerà la stragrande maggioranza degli Stati, emettendo titoli di debito pubblico (eurobond, coronabond, ecc.) garantiti da tutti gli Stati europei, ma soprattutto da quelli che , come la Germania, hanno il più basso rapporto debito pubblico/PIL.

C’è da augurarsi che questa rivendicazione del Governo italiano, condivisa, a quanto pare, da Francia e Spagna, trovi accoglimento in Commissione, anche se la cosa appare oggi molto improbabile, perché infliggerebbe un colpo mortale allo spread fra BTP e Bond tedeschi che finora ha consentito alla Germania di finanziarsi il debito a costo zero.

Se questo non avverrà si riproporrà la domanda di sopra: da chi prendere i soldi ed a quali condizioni?

Sarà possibile riprendersi dalla crisi economica senza mettere in discussione i Trattati Europei che non sono mai stati supportati da un esplicito consenso popolare, frutto di un ampio dibattito, visto che non sono proponibili Referendum?

Si potrà o dovrà far ricorso al risparmio privato degli italiani, convincendoli o costringendoli al prestito allo Stato , mentre il sistema politico è privo di qualsiasi credibilità ed i suoi principali attori, i Partiti, si delegittimano a vicenda in ossequio ad un sistema elettorale maggioritario che impone a tutti la guerra per bande?

Ma a queste domande ne segue immediatamente un’altra: come impiegare i soldi una volta trovati?

Su questo punto stiamo assistendo ad una guerra già dichiarata. Confindustria, infatti, seguita da tutte le organizzazioni imprenditoriali, ha invitato lo Stato a farsi da parte, in ossequio a quella concezione liberista che affida al solo profitto la spinta allo sviluppo economico. Senza pudore, qualcuno, non contento delle garanzie già offerte alle Banche dallo Stato, ha avanzato la richiesta che le somme fossero date a fondo perduto.

Da un altro versante si sono fatte più forti le voci, già presenti prima dello scoppio della pandemia, che rivendicano una ripartizione delle risorse pubbliche a vantaggio delle Regioni del Nord rispetto a quelle del Sud, in coerenza con quella truffaldina teoria del “residuo fiscale” che, negando la funzione dello Stato centrale a vantaggio dell’autonomia regionale, ha già distribuito pro-capite negli ultimi 10 anni una somma complessiva pari a 600 miliardi in più al Nord (dati SVIMEZ).

In autunno dovremmo avere le elezioni regionali e questi temi non dovrebbero essere estranei al dibattito sui programmi e sui candidati. Così come non dovrebbero occupare un posto di secondo piano i piani di ripresa economica regionale dopo la pandemia.

Non conosco quale peso occupino i comparti dell’agricoltura e del turismo nella determinazione del PIL regionale. Ma credo che non possano essere considerati marginali.

Per cui la ripresa delle attività produttive dopo lo stop del COVID19 non dovrebbe ignorare:

  • la situazione di degrado dei lavoratori della campagna (un tempo chiamati proletariato agricolo) che, quando sono extra-comunitari,  vivono ai confini di una condizione di schiavitù, favorita dalla mancata regolarizzazione, che li costringe ad accettare di tutto, finendo per far abbassare il valore complessivo della forza-lavoro nelle campagne;
  • le condizioni di arretratezza della produzione agricola, che invece di investire negli impianti (serre, irrigazione, diversificazione produttiva, ecc.) preferisce sfruttare la manodopera a basso costo per reggere in tal modo alla concorrenza internazionale;
  • la mancanza di organismi legali di mediazione e collegamento fra offerta e domanda di lavoro, che favorisce il caporalato;
  • la mancanza di strutture pubbliche che favoriscano il commercio all’ingrosso, sottraendolo alla speculazione dei mediatori e della grande distribuzione;
  • la mancanza di una industria agroalimentare che possa garantire la trasformazione dei prodotti, specialmente nei periodi di eccedenza.

Per quanto riguarda il turismo, ferma restando la situazione di difficoltà che permarrà fino a quando la pandemia impedirà di muoversi in sicurezza, alla ripresa il ruolo delle istituzioni pubbliche, Comuni e Regioni, dovrebbe tendere, a mio avviso, al superamento della parcellizzazione delle microstrutture turistiche nella direzione di forme di cooperazione per una intelligente politica dei prezzi e della promozione, perché la ripresa avvenga il più rapidamente possibile.

rtà.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo