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23 Giugno 2025

La Legge Reale: la norma che armò lo Stato e divise l’Italia

La tutela giuridica degli appartenenti alle Forze dell’ordine è sacrosanta ma non si ottiene con “scudi” ma con il pagamento integrale da parte dello Stato delle spese legali e il congelamento di procedimenti disciplinari e di trasferimento in attesa del responso della magistratura.

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Tra emergenza terrorismo, diritti civili e ferite ancora aperte

Di Pierdomenico Corte Ruggiero

Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dei due poliziotti che hanno ucciso l’assassino del Brigadiere dei Carabinieri Carlo Legrottaglie, si torna a parlare di uno “scudo” legislativo per gli appartenenti alle Forze dell’Ordine.

Un tema che suscita molte discussioni. Che partono da lontano.

Era il 22 maggio 1975 quando il Parlamento approvò in via definitiva la Legge n. 152, passata alla storia con il nome del suo promotore, il ministro della Giustizia Oronzo Reale. In un’Italia straziata dal terrorismo nero e rosso, dalle stragi e dalle piazze in fiamme, lo Stato decideva di rispondere con una stretta repressiva senza precedenti. Nasceva così un provvedimento che avrebbe segnato per anni il rapporto tra cittadini e forze dell’ordine: la cosiddetta Legge Reale, contestata fin dal principio per la sua natura eccezionale, accusata di comprimere le garanzie costituzionali e finita al centro di un referendum popolare.

A metà degli anni Settanta l’Italia è attraversata da una spirale di violenza. Solo nel 1974 si contano la strage neofascista di Piazza della Loggia a Brescia e l’attentato dell’Italicus. La democrazia appare sotto assedio. Il governo Moro, con l’appoggio determinante del Partito Comunista, decide di adottare una risposta muscolare. Il Parlamento approva in meno di 40 giorni un testo che introduce nuovi poteri per polizia e carabinieri, nel nome del «ripristino dell’ordine pubblico».

Tra i punti chiave della legge 152/75, spiccano:

Il fermo di polizia anche al di fuori della flagranza di reato, in caso di “fondato sospetto di fuga” (art. 3).

Divieto di manifestare a volto coperto, colpendo chi indossava caschi o passamontagna durante cortei o proteste (art. 5).

Soprattutto, un’estensione dell’uso legittimo delle armi da parte delle forze dell’ordine (art. 14), che modificava l’articolo 53 del codice penale e permetteva agli agenti di sparare per impedire la commissione di gravi reati come rapine o sequestri.

Una serie di misure che, nei fatti, trasformarono lo Stato di diritto in un “regime d’eccezione” per molti osservatori.

Giuristi, associazioni per i diritti civili e movimenti politici, tra cui il Partito Radicale, denunciarono fin da subito la pericolosità della norma. “Una legge che autorizza la violenza di Stato”, dissero in molti, evidenziando il rischio di arbitrarietà e impunità.

Le critiche si concentrarono soprattutto sull’uso delle armi da fuoco e sull’assenza di controllo giurisdizionale preventivo su perquisizioni e fermi. La reazione fu tale che nel 1978 si arrivò a un referendum abrogativo, promosso da Marco Pannella e dai radicali. Ma, in piena emergenza terrorismo brigatista, il clima politico spinse i principali partiti – PCI in testa – a difendere la legge. Il risultato fu netto: il 76,5% degli italiani votò contro l’abrogazione.

I dati parlano chiaro: tra il 1975 e il 1989, 254 persone morirono in circostanze legate all’applicazione della Legge Reale. Altre 371 furono ferite. La maggior parte delle vittime era disarmata o non stava commettendo reati gravi al momento dell’intervento delle forze dell’ordine. In almeno 65 casi si parlò ufficialmente di “colpi partiti accidentalmente”.

Tra le vittime più note, Luigi Di Sarro, medico e artista ucciso a Roma nel 1979 da un colpo esploso a bruciapelo da un carabiniere. L’episodio fu archiviato come errore, ma divenne simbolo della pericolosità insita in una legge che molti consideravano fuori controllo.

Col passare degli anni, alcune disposizioni della Legge Reale sono state attenuate o abrogate.

Tuttavia, la scriminante sull’uso delle armi, cioè l’articolo 53 del codice penale così come modificato dalla Legge Reale, è ancora in vigore. E continua a suscitare interrogativi. Ogni volta che un civile muore durante un’operazione di polizia – come nel caso Cucchi, Aldrovandi – il dibattito si riaccende.

La Legge Reale ha lasciato un segno profondo nella storia italiana. Non solo per i numeri – impressionanti – delle vittime, ma per l’impatto sul rapporto tra cittadini e Stato. In nome della sicurezza, si è accettato di sacrificare parte dei diritti civili, allargando lo spazio di manovra delle forze di polizia e restringendo quello delle garanzie costituzionali.

A distanza di cinquant’anni, la domanda rimane: quanto può spingersi uno Stato democratico per difendersi dal terrore, senza diventare esso stesso strumento di oppressione?

I NUMERI

Periodo    Morti legati all’uso della legge Feriti gravi Processi a poliziotti Condanne

1975–1989        254      371      37 3                                          

La Legge Reale resta uno dei provvedimenti più controversi della storia repubblicana. Per alcuni fu un “male” necessario per salvare la democrazia dalla minaccia eversiva. Per altri, l’inizio di una stagione buia in cui la violenza dello Stato non fu meno pericolosa di quella dei suoi nemici.

Oggi, nel pieno di nuove sfide alla sicurezza – dalle proteste sociali alle tensioni nelle periferie – quell’esperienza rappresenta un monito: le leggi speciali non devono mai diventare ordinarie.

La tutela giuridica degli appartenenti alle Forze dell’ordine è sacrosanta ma non si ottiene con “scudi” ma con il pagamento integrale da parte dello Stato delle spese legali e il congelamento dei procedimenti disciplinari/trasferimento, in attesa del responso della magistratura.

Lo Stato deve assicurare i fondi necessari per le donne e gli uomini in divisa. Perché usare la retorica legislativa per risparmiare sarebbe la peggiore offesa per coloro che difendono la nostra sicurezza.

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