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La malattia di chi amiamo, tra dolore e rinascita

La vita brutalmente ci insegna che non possiamo privarci della sofferenza, che si sviluppa e cresce in noi in forme spesso nuove e sorprendenti, impedendoci una resistenza vittoriosa anche a causa della sua creatività.

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La vita brutalmente ci insegna che non possiamo evitare il dolore, che si sviluppa e cresce in noi in forme nuove e sorprendenti, impedendoci sempre una resistenza vittoriosa. Infatti si resiste, ma perdendo, restando trafitti e sofferenti anche di fronte alla sua creatività. 

Le generazioni che vivono questo momento storico sono educate ad inseguire il piacere scevro da contaminazioni ed anche se culturalmente si è preparati e si resta disincantati rispetto all’idea di un eventuale evitamento del malessere, che è parte inevitabile della bellezza e del buono, la ferita resta e fa male, a conferma di quanto sostenuto il secolo addietro da Pirandello e cioè che il cervello è per gli esseri umani un organo inutile. 

Anche la scienza ci consente di affrontare meglio la malattia ma paradossalmente ci sguarnisce di difese efficaci da un punto di vista psicologico. Ci consente ad esempio di avere accanto i  genitori, spesso non meno che novantenni, ma apre le nostre vite ad esperienze uniche di gestione della complessità del reale. Se l’esistenza fosse dominio esclusivo di quanto ci accade, perché ci rende forti e preparati, non ci resterebbe che plaudere a tutte le sfide, anche quelle più disumane, ma la vita è dotata di molti piani, tutti tra di loro legati, che ci presentano puntualmente il conto senza che si possa obiettare nulla contro un superiore responsabile, perché non esiste e se esiste non risponde e non ci resta che guardare da soli all’esistenza che di noi si serve, consentendoci l’uso ma non la proprietà dei giorni. Valutando la questione in termini esclusivamente razionali, a cosa servirebbe infatti assistere impotenti al decadimento di ogni facoltà di chi ci ha dato la vita? È un insegnamento che non può prepararci a qualcosa che verrà perché nulla è paragonabile al ruolo svolto dai genitori ed all’amore che ad essi ci lega ed allo stesso modo il dolore che deriva dall’accompagnarli nella malattia non può avere termini di paragone: è un viaggio che compiamo una sola volta. 

Durante questo tragitto comprendiamo la profondità assoluta di questi legami ed il nostro essere matite spezzate nella risoluzione delle problematiche che ne derivano. L’assenza nello sguardo di mia madre a causa della malattia ad esempio ed il suo osservare qualcosa che non mi contempla, mi ferisce. L’ adorazione assoluta per ciò che è stata mentre prigioniera la guardo, mi rende rabbiosa per la mia incapacità di  trasformare in bellezza il sentimento che nel bene e nel male, in concordia o in opposizione mi ha permesso di andare avanti.

Ci sono poi questioni che esulano dai sentimenti personali e rappresentano il portato culturale che la società impone e che non ci sollevano né ci liberano, perché al contrario esigono una nostra prigionia. Sono le norme ataviche delle religioni e della morale di cui la società ha bisogno per mantenersi coesa e perpetuarsi.

Che il nostro dolore ed i nostri obblighi derivino da questi portati o da quelli personali, posto che esista davvero un confine ed uno spazio esclusivo per ognuno dei due, non può essere stabilito e l’esperienza di conoscere la malattia di chi amiamo profondamente ci fa sentire come chi tende una mano da una rupe a chi sta cadendo: ci mette cioè di fronte ad una responsabilità e se devo attingere alla mia personale esperienza, alla richiesta di un miracolo che fa di mia madre e di me due perdenti. Tante volte prima di questo viaggio mi è capitato di pensare al mito greco di Kleobis e Bito, i due fratelli, distrutti dalla fatica di accompagnare la madre Cidippe e trasportare il necessario per la processione in onore di Era, di cui la madre era sacerdotessa, sostituendosi ai buoi per cinque miglia. La donna chiese alla fine del tragitto aiuto alla divinità, che le accordò il sonno eterno dei due ragazzi. La narrazione è per noi enigmatica, soprattutto nel finale ma non nella parte che racconta il sacrificio dei fratelli per sostenere la madre. Il mito di Kleobis e Bito per ragioni inspiegabili o evidentissime è rimasto nel mio cuore dal primo momento in cui ne sono venuta a conoscenza. Questo inevitabile e doloroso sacrificio è destinato a non restituire nulla di vitale, che ricomponga i segni ancora privi di significato nelle esistenze di ciascuno? È sangue necessario ad una rinascita o solo una sadica mutilazione? (Fine prima parte)

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano