Editoriale
La battaglia sulla cittadinanza
di Lavinia Orlando
Si è fatto un gran parlare, in questi giorni, dell’ampio superamento delle cinquecentomila firme necessarie per promuovere un referendum abrogativo. Il quesito in questione incide sul numero minimo di anni di residenza necessari – ora sono dieci, la proposta li dimezza – perché l’extracomunitario possa fare richiesta di cittadinanza italiana.
Sarebbe indubbiamente un passo in avanti nella legislazione in materia, il c.d. minimo sindacale al fine di favorire un approccio meno ideologico e più concreto alla tematica.
Solo non sapendo – o facendo finta di non sapere – che dietro alle richieste di cittadinanza vi sono donne, uomini e bambini, si viene spinti a ragionare in maniera algida e meccanica. Un po’ come i tanti che teorizzano i respingimenti in mare o il rimpatrio o la sosta nei c.d. centri di accoglienza nordafricani – veri e propri “campi di concentramento” – che però cambiano subito idea nel momento in cui si imbattano in barconi carichi di vite o in migranti con la pelle squarciata a causa delle violenze subite nei mesi o anni di permanenza forzata in Libia in attesa di partire per il nostro Paese.
Il referendum che tanti consensi ha strappato lascia comunque intatti tutti gli ulteriori requisiti richiesti perché gli stranieri non comunitari possano diventare italiani, da quelli economici, alla conoscenza della lingua, fino all’assenza di condanne penali per taluni reati o di ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica. Lo stesso referendum, in più, non semplifica minimamente quanto necessario per l’acquisto della cittadinanza in favore dei minori che nascono in Italia da genitori stranieri, per i quali la legge prevede, al momento, le uniche alternative dell’acquisto automatico della cittadinanza nel caso in cui uno dei due genitori diventi italiano fintanto che i figli mantengano la minore età o dell’elezione di cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età purché ininterrottamente residenti in Italia dalla nascita.
In materia, già da diversi anni, si parla di ius scholae, ossia di acquisto della cittadinanza italiana da parte minori stranieri nati in Italia o arrivati prima del compimento di una certa età, al completamento di un ciclo di studi. Su tale possibilità sarebbero concordi le minoranze oltre che, almeno a parole, Forza Italia. Con tale modifica verrebbe assicurato un notevole passo in avanti, se solo si consideri che la maggior parte dei bambini nati in Italia da genitori stranieri sono italiani tanto quanto – se non di più – i bimbi italiani, con cui condividono giornate intere, giochi, passioni, sofferenze e dialetti.
Che i tempi siano maturi per una totale rivisitazione della normativa sulla cittadinanza è circostanza ormai chiara da almeno quindici anni. Costringere milioni di italiani di fatto – immigrati di prima e di seconda generazione, perfettamente integrati nel nostro territorio e che, soprattutto, contribuiscono notevolmente alla sua crescita – ad attendere decenni prima di diventare italiani anche formalmente è tra le maggiori assurdità previste dal nostro Paese, esacerbata da un’ulteriore considerazione.
La legge consente a chi non è nato in Italia e non ci hai messo piede di essere riconosciuto italiano sin dalla nascita nel caso in cui abbia un avo italiano. Così capita che centinaia di migliaia di argentini facciano domanda per il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis e si vedano riconosciuto il passaporto italiano nonostante non parlino una sola parola di italiano, purché possano vantare un trisnonno italiano, emigrato in Sudamerica tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Qualcuno dovrebbe spiegare ai leader della destra italiana di come i tanti connazionali così riconosciuti non abbiano la benché minima connessione col nostro Paese, se non quella, formale, della parentela con un italiano, e continuino a non averla anche dopo il riconoscimento della italianità, letteralmente sfruttato, nella maggior parte dei casi, al fine di potersi muovere e liberamente stabilire in Europa, in Stati che offrano più possibilità rispetto all’Italia.
L’ingiustizia di tale normativa è palese e andrebbe corretta al più presto.
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