Editoriale
Poveri ma “sopravvissuti”, la democrazia è solo per i ricchi
La politica emana continuamente slogan, proclami, proposte per contrastare la povertà, tuttavia da almeno trent’anni è evidente come sia tutta retorica, inclusa quella dei sindacati, il cui sciopero generale ha purtroppo rispecchiato le aspettative, cioè è stato un altro buco nell’acqua. In America gli operai della Ford hanno scioperato per 45 giorni per avere aumenti salariali; in Italia invece le lotte per combattere la povertà vengono derise, sbeffeggiate, minimizzate, criminalizzate, perché da noi bisogna lavorare per continuare ad essere poveri, magari gratis per “accumulare esperienza”. Uno Stato classista incapace di combattere le disparità sociali non può definirsi una democrazia. Con queste premesse non ha senso parlare di premierato o di libertà d’espressione. Tanto vale introdurre il sistema delle caste come in India, ma con gli asterischi in fine di parola per dare un’illusione di inclusività, in un Italia in cui possiamo essere chiunque, eccetto poveri.
di Alessandro Andrea Argeri
La politica emana continuamente slogan, proclami, proposte per contrastare la povertà, tuttavia da almeno trent’anni è evidente come sia tutta retorica, inclusa quella dei sindacati, il cui sciopero generale ha purtroppo rispecchiato le aspettative, cioè è stato un altro buco nell’acqua. In America gli operai della Ford hanno scioperato per 45 giorni per avere aumenti salariali; in Italia invece le lotte per combattere la povertà vengono derise, sbeffeggiate, minimizzate, criminalizzate, perché da noi bisogna lavorare per continuare ad essere poveri, magari gratis per “accumulare esperienza”.
In una società in cui il classismo è evidente a partire dalle scuole, il dibattito italiano sulla povertà è sempre lo stesso: si parla un po’ di “solidarietà sociale”, di carità, di odio verso i meno abbienti. Ogni tanto si distribuiscono bonus-elemosina, ma nel concreto mancano le scelte coraggiose per risolvere il problema, ovvero quelle misure veramente efficaci, di conseguenza la povertà aumenta.
Lo dice “Tutto da Perdere”, l’ultimo rapporto su povertà ed esclusione sociale pubblicato sabato 28 novembre da parte della Caritas, l’organizzazione cattolica italiana per la promozione della carità. I dati sono inquietanti: “si contano oltre 5,6 milioni di poveri assoluti, pari al 9,7% della popolazione; un residente su dieci oggi non ha accesso dunque a un livello di vita dignitoso. È un fenomeno ormai strutturale e non più residuale come era in passato. La persistenza, e in molti casi il peggioramento, di tante situazioni di deprivazione e di esclusione sociale appare inaccettabile”.
Il rischio di povertà tocca i 14milioni di connazionali, tra cui “1,2 milioni di minori in condizione di indigenza”, con il 7,5% di questi in “condizioni di grave deprivazione abitativa”, il cui futuro è già compromesso perché “chi nasce povero molto probabilmente lo rimarrà anche da adulto”. Così dovremmo combattere l’inverno demografico? La famiglia di provenienza è determinante per il futuro: solo l’8% dei figli di non laureati riesce poi a laurearsi, contro una media OCXE del 22%. I centri d’ascolto della Caritas inoltre rilevano tanti nuovi lavoratori poveri: “se si guarda alle famiglie povere nel loro insieme (in totale 2 milioni 187mila) colpisce notare come per la metà non ci sia un problema legato alla mancanza di un lavoro: il 47% dei nuclei in povertà assoluta risulta infatti avere il capofamiglia occupato”.
Non un stupisce allora come, sempre secondo lo studio Caritas, “sopravvivere” sia la parola più citata dai lavoratori poveri, consapevoli di non avere aspettative, di non poter vivere una vita piena, costruirsi una famiglia, o garantire ai propri figli i beni primari, dai vestiti ai materiali scolastici, perché “i working poor riescono ad acquistare per due settimane al mese e poi vanno in sofferenza”. Di fronte a questi numeri bisognerebbe scioperare ogni giorno, non ogni due o tre anni a seconda del colore politico del governo.
La mobilità sociale è ormai praticamente assente, ma se l’ascensore non funziona anche il Paese rimane bloccato. I governi fingono di non vedere tutto questo: se da una parte continuano a perpetuare le ingiustizie sociali con la scusa dell’alto debito pubblico, dall’altra condonano i debiti alle squadre di Serie A. Poi ogni tanto si scatena una guerra, si proclama la “pace fiscale” per aiutare chi è indietro con la rata del Mercedes, mentre non c’è tassazione né sui grandi patrimoni né sugli extraprofitti di chi specula sulle crisi.
Dove sono gli interventi significativi? Siamo un Paese in povertà con ricchi sempre più potenti perché i governi si interessano solo di questi gruppi minoritari. Come si giustifica tutto? Con la cultura della colpa: “se sei povero devi vergognarti, perché se tu fossi stato bravo non saresti tale”, eppure non è sempre così. Talvolta il “povero” non ha avuto molte opportunità, mentre il “ricco” può anche essere chi ha ereditato grandi fortune, dunque non si può parlare sempre di “merito”. I ricchi costruitisi da soli, i “self made man” all’americana sono una minoranza rispetto alla maggioranza dei benestanti. Uno Stato classista incapace di combattere le disparità sociali non può definirsi una democrazia. Con queste premesse non ha senso parlare di premierato o di libertà d’espressione. Tanto vale introdurre il sistema delle caste come in India, ma con gli asterischi in fine di parola per dare un’illusione di inclusività, in un Italia in cui possiamo essere chiunque, eccetto poveri.
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