Editoriale
Aboliamo l’economia, salviamo il Pil con gli asterischi!
Come ogni anno, gli ultimi tre mesi sono i politicamente più intensi per via della stesura della nuova legge di bilancio. Di conseguenza, anche la litania dei giornaloni rimane la stessa: “la coperta è corta”, “non ci sono abbastanza soldi”, “non si può fare tutto”. Accade col nuovo Governo Meloni, ma è stato così pure con Draghi, prima ancora con Conte, con Gentiloni, con Renzi, fino alla notte dei tempi…
di Alessandro Andrea Argeri
Come ogni anno, gli ultimi tre mesi sono i politicamente più intensi per via della stesura della nuova legge di bilancio. Di conseguenza, anche la litania dei giornaloni rimane la stessa: “la coperta è corta”, “non ci sono abbastanza soldi”, “non si può fare tutto”. Accade oggi col nuovo Governo Meloni, ma è stato così pure con Draghi, prima ancora con Conte, con Gentiloni, con Renzi, con Assurbanipal, con Nabucodonosor, fino alla notte dei tempi… Ora però c’è una notizia veramente eclatante: “l’economia ha rallentato, l’Italia non cresce più”. Sembra passato un secolo da quando la premier della Garbatella mostrava fiera sulle sue pagine social, anziché ai giornalisti in conferenza stampa, i grafici sull’andamento positivo del Pil in costante crescita: <<Tutto merito della stabilità e dell’affidabilità del Governo!>>. Invece era solo fino a prima dell’estate, poi evidentemente è arrivato il caldo a rovinare tutto, l’economia avrà preso un’insolazione.
Secondo i dati della Banca Mondiale il Pil italiano è effettivamente aumentato dal Secondo Dopoguerra agli anni Ottanta, poi ha iniziato a diminuire mentre gli altri Paesi avanzati non si sono fermati. Infine la crisi dell’euro, seguita da quella del 2008, ha bloccato la crescita italiana ai valori del 2006. Inutile chiedersi il perché, le cause sono note da anni anche ai meno esperti in materia: l’industria italiana non è al passo coi tempi, non si è adeguata alle trasformazioni economiche degli ultimi anni, oltretutto mancano le grandi imprese; il comparto produttivo è composto infatti principalmente dalle piccole e medie attività.
Inoltre il calo degli stipendi, aggravato dalle continue emergenze, prima la pandemia, poi la guerra, infine la speculazione, ha determinato il calo dei consumi dei beni durevoli, perché adesso il cittadino comune, non solo quello appartenente al fu ceto medio, non ha più potere d’acquisto. Come ha più volte scritto Federico Fubini sul Corriere nelle ultime settimane, “il calo del consumi rappresenta la rivincita delle famiglie”, ma anche un segno di sfiducia nei confronti di governi incapaci di rispondere senza sventolare le bandierine ideologiche.
Allora, in questo periodo in cui sentiremo molto parlare del pessimo andamento del Pil del nostro Paese, anziché incolpare il Governo, dobbiamo chiederci: come rilanciare l’economia? Sicuramente un buon primo passo sarebbe quello di regolamentare il mercato del lavoro, quindi anche il fisco. Quest’ultimo infatti non può reggersi quasi solo su dipendenti e pensionati, gli unici i cui guadagni sono veramente certi.
Per aiutare i lavoratori le opposizioni hanno iniziato a proporre seriamente il salario minimo, dopo dieci anni in cui solo i Cinque Stelle avevano tenuto viva l’idea, tuttavia una simile misura potrebbe alimentare ulteriormente l’inflazione come ai tempi della “scala mobile”, quando durante la Prima Repubblica gli stipendi variavano in base all’aumento dei prezzi. Il risultato fu un’interminabile spirale di incrementi. A tal proposito, una soluzione per evitare un simile disastro potrebbe essere il calmieramento dei beni di prima necessità. Sicuramente, se non si bruciasse l’intero stipendio per le spese di base, il consumatore spenderebbe altrove. Una prova? Quest’estate il turismo interno non ha dato i numeri sperati a causa sia dei prezzi alti sia del carovita.
Infine, ma qui si tratta di vera utopia, bisognerebbe riformare il nostro modo di concepire l’assistenza sociale, la quale non punta alla reintegrazione dell’individuo in società, bensì ad alimentare un sistema parassitario. Insomma, ad essere fermo è il Paese, non il Pil. Nel dubbio però aboliamo l’economia, tanto è sempre andata male, non ci serve. Piuttosto teniamoci gli asterischi nella lingua con tutta la falsa inclusività, in fin dei conti siamo tutti uguali finché non si è poveri. Sicuramente, con un progressismo tanto illuminato oltre che lungimirante, nei prossimi anni riusciremo a resistere al crollo della scuola pubblica, delle infrastrutture, delle pensioni, della sanità, del welfare.
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