Politica
L’Italia delle sentenze
di Lavinia Orlando
Giustizia, croce e delizia della politica nostrana. Grimaldello da azionare all’occorrenza al fine di ottenere il migliore risultato possibile, tanto in termini personali sotto il profilo dei procedimenti penali che raramente mancano nei curricula di chi governa, tanto in termini propagandistici con riguardo alle differenti tendenze che animano i vari schieramenti.
E quanto la giustizia rappresenti parte fondamentale del dibattito politico è presto affermato. Basti pensare alle vicende giudiziarie che hanno caratterizzato i giorni appena trascorsi e che si sono inevitabilmente ripercosse sulla narrazione – e propaganda – politica.
C’è stata la sentenza di primo grado sull’Ilva – nel processo significativamente denominato “Ambiente svenduto” – che ha sostanzialmente confermato ciò che quasi tutti già sapevano: il disastro sanitario ed ambientale in corso a Taranto non è un’invenzione di uno sparuto gruppo di ambientalisti o di un comitato di cittadini puntigliosi (oltre che estremamente sofferenti), bensì una dolorosa realtà artatamente costruita da un’imprenditoria senza scrupoli, spalleggiata, all’occorrenza, dalla politica.
Stante questo quadro, la condanna per concussione dell’ex Presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, rappresenta un autentico pugno nello stomaco. La sentenza, per cui l’ex leader di SEL avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale ARPA Puglia per ridurre l’intransigenza nei confronti di Ilva, verrà certamente appellata da un Vendola che, dopo la lettura del provvedimento, si è lasciato andare ad uno sfogo con argomenti che, fino a qualche tempo fa, sembravano essere appannaggio della destra berlusconiana.
Come sempre, tuttavia, la valutazione politica deve essere separata dalle personali situazioni giudiziarie – a meno che, ovviamente, non si rientri nelle ipotesi in cui il procedimento penale determini incompatibilità con cariche elettive. E l’aspetto politico, in particolare nella vicenda Ilva, non può certamente prescindere dalla sostanziale incapacità dei governi di trovare soluzione in ordine ad una situazione che continua a determinare sofferenza e morte, circostanza ancora più grave per un Presidente all’epoca a capo di un partito denominato Sinistra Ecologia e Libertà, per cui non avrebbe dovuto esserci alcun dubbio nello scegliere, tra salute e lavoro, la prima.
Una dicotomia, quest’ultima, che continua a rappresentare uno dei punti focali dei nostri giorni, venuto in luce in modo dirompente in seguito alla pandemia da Covid-19, ma chiaramente presente in tanti altri aspetti, a partire dalle numerose ipotesi in cui la sicurezza sul lavoro viene sacrificata per assicurare profitto e maggiore produzione.
Ed è proprio in ordine a questo difficile bilanciamento di interessi contrapposti che è venuta in luce un’ulteriore questione che con la giustizia ha molto a che vedere: la scarcerazione del pentito di mafia Giovanni Brusca. Parliamo di un pluriomicida, responsabile, tra i tanti altri (circa un centinaio), dell’uccisione del giudice Giovanni Falcone, per cui, dopo 25 anni di reclusione, si sono aperte le porte del carcere grazie ai benefici riconosciuti ai collaboratori di giustizia.
Trattasi di una norma ispirata dallo stesso Falcone, approvata nel lontano 1991, da allora adoperata tante volte – si contano, in media, un migliaio di collaboratori l’anno – e che ha consentito di conoscere molto delle organizzazioni mafiose e di combatterle fortemente, ma di cui in tanti paiono essersi accorti solo ora.
Alla testa degli indignati si è posto il leader della Lega, Matteo Salvini, che ha urlato allo scandalo, addirittura auspicando una modifica della norma in questione, con buona pace di Falcone e dei benefici che da essa sono derivati. Il tutto è stato orchestrato, come sempre, per tentare di rincorrere ciò che l’ex Ministro dell’Interno valuti essere il percorso più vicino alla volontà popolare. Anche perché le dichiarazioni appena riportate si pongono in netto contrasto con alcuni dei referendum che la Lega sta sostenendo insieme ai Radicali, tra cui l’abolizione dell’incandidabilità e del divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo derivanti da sentenze definitive di condanna per delitti non colposi – norma che, guarda caso, potrebbe riguardarlo laddove fosse ritenuto responsabile per la nota vicenda Open Arms.
Il tutto non fa altro che contribuire all’enorme confusione che caratterizza i nostri tempi e di cui il “Governo dei migliori” non rappresenta altro che una chiara fotografia: tutti insieme appassionatamente con differenze, ideologiche e di fatto, sempre più azzerate e risvolti estremamente negativi in termini di dibattito e conseguente confronto democratico.