Esteri
Gran Bretagna e Francia al bivio rispetto ad una ristrutturazione Europea
Chiunque vinca in Francia o Keit Starmer in Gran Bretagna, ha davanti il medesimo obiettivo: far ripartire economie stagnanti.
Di Fulvio Rapanà
La politica affronta snodi a livello nazionale, europeo o mondiale praticamente ogni settimana, domenica 30 giugno il primo turno in Francia con il ballottaggio domenica 7 luglio; giovedì 4 luglio si è votato per le politiche in Gran Bretagna; venerdì 5 si è votato per l’importante ballottaggio in Iran con la vittoria del candidato riformista. Intrecci politici con possibili soluzioni diverse, su tutto la programmata ristrutturazione europea, e una campagna presidenziale americana che mette allo scoperto l’inconsistenza di una classe politica americana del tutto inadeguata rispetto ai compiti che spettano agli Usa come nazione guida del blocco occidentale.
Francia e Gran Bretagna soffrono più o meno delle medesime malattie: perdita di competitività del sistema produttivo, aumento consistente del debito pubblico, politiche sociali costose, e inadeguate, rispetto ai settori produttivi da cui dovrebbero provenire le risorse per pagare il welfare. Chiunque vinca in Francia o Keit Starmer in Gran Bretagna, ha davanti il medesimo obiettivo: far ripartire economie stagnanti. Ambedue escono da una recessione più forte e lunga di quanto previsto, ambedue hanno sofferto nell’ultimo decennio di una lenta crescita economica e di bassa produttività, aumento delle tasse e del debito pubblico, peggioramento della qualità dei servizi pubblici con i servizi sanitari costantemente sottofinanziati e sovraccaricati. Sono due nazioni ed economie arrivate al medesimo punto ma con tragitti diversi.
In Gran Bretagna i Laburisti di Starmer hanno stravinto le elezioni più da un punto di vista dei seggi, per una bizzarra legge elettorale, che dei voti rispetto ad un partito Conservatore che ha governato ininterrottamente dal 2010, dopo la terribile crisi finanziaria del 2008. David Cameron vinse le elezioni su una piattaforma politica che prometteva una riduzione della spesa pubblica accompagnata da un consistente taglio delle tasse soprattutto per i redditi più elevati e per il sistema delle banche e dei servizi finanziari. Sono seguiti anni di austerità in cui i vari ministeri, compreso la difesa, hanno affrontato enormi tagli ai loro bilanci. La London School of Economics già nel 2014 avvertì il governo che il “programma di austerità era troppo severo e quindi ostacolava la ripresa e impediva gli investimenti” o meglio l’austerità era tale che le risorse venivano impiegate sia dalle aziende che dai privati nel sopperire all’austerità stessa a scapito degli investimenti. Secondo l’Università di Cambridge i salari dei britannici sono stati assorbiti per colmare le carenze dei servizi statali che sommata ad una mancata crescita dei salari stessi è costato al lavoratore medio 11.000 euro l’anno. A questo si è aggiunta la Brexit il cui impatto economico è ancora tutto da quantificare ma che ha creato nel sistema produttivo britannico anni di incertezza che di fatto hanno bloccato le aziende dal fare investimenti, inoltre le barriere commerciali erette in tutti i settori hanno reso il lavoro più duro e costoso. Per molti versi il sistema pubblico britannico si è molto italianizzato: grossi arretrati nei tribunali, lunghe liste di attesa nel sistema sanitario, carceri sovraffollate, costi delle case in acquisto o in fitto saliti notevolmente per la difficoltà a costruire nuove case per l’edilizia popolare. Da Cameron in poi i Tory ritenevano di poter reggere il peso economico della Gran Bretagna trasformandola nella capitale mondiale del riciclaggio con le banche della City ammantate di gloria e di mogani che facevano il gioco pulito e le “dependance” delle banche d’oltremare o della manica o dei caraibi che facevano il lavoro sporco. Ma in parte la Brexit, con una emoraggia di 900 mld di sterline ripartiti per l’Europa, in parte per la perdita della City di una “reputazione di porto sicuro e inviolabile” per avere bloccato…congelato miliardi di sterline degli investitori russi, solo perché “amici di Putin”, hanno molto ridimensionato il progetto dei conservatori.
Stanmer non ha delineato quali misure vuole adottare per ribaltare la tendenza all’economia, ci sono richieste urgenti di spendere di più nell’ammodernamento dei servizi pubblici come la sanità, l’ordine pubblico e la giustizia; anche la difesa, che con l’aria che tira in Europa, risulta del tutto insufficiente, ma risulta urgente anche una riduzione del debito pubblico. Nel primo discorso da Primo Ministro mi ha colpito la promessa di lavorare per una maggiore “sicurezza” non come fatto pubblico ma come emergenza “sociale” “ i cittadini devono sapere che qualunque cosa succeda lo stato ci sarà”. Ottimo. Diverse urgenze che vanno sanate con soluzioni opposte compreso l’aumento delle tasse per i redditi alti che in previsione di un ribaltone da conservatori a laburisti stanno, nel dubbio, “decentrando” i loro investimenti.
Sulla Francia ho già scritto in due articoli, il 17 Giugno “Report Europee 2024”, e il 1° di Luglio “il finto psicodramma politico in Francia non produrrà nulla”, riporto una dichiarazione di Jean-Claude Trichet, ex Presidente della BCE, che inquadra perfettamente la situazione “quando si lavora in una azienda esportatrice, esposta alla concorrenza internazionale, come la maggioranza dei tedeschi, si stabilisce un legame diretto tra la competitività della propria azienda e la salvaguardia del proprio posto di lavoro”. La Francia negli ultimi 30 anni si è seduta lasciando ai suoi grandi pivot di dimensioni mondiali , Renault, Peugeot, EDF, BNP Paribas, LVMH, Airbus, Total, AXA, il compito di competere nel mondo. Così facendo non ha alimentato la formazione di una generazione di aziende più piccole, ma anche più flessibili, che avrebbero messo l’economia più a contatto con il mercato e la competizione. Per questo andamento la Francia ha perso quasi trenta punti di competitività rispetto alla Germania e dieci rispetto all’Italia, che al contrario non ha grandi pivot di livello mondiale ma una fortissima presenza di azienda dalle medio/grandi alle piccole che esportano e competono. Macron ha provato a dare una sveglia a tutti con una serie di riforme, tra cui quella delle pensioni, molto contestate, anche con uno scontro fisico, sia dalla destra che dalla sinistra, che però risultano del tutto insufficienti rispetto all’obiettivo e soprattutto non hanno una completa copertura finanziaria legata anche all’evidenza che il debito pubblico francese è cresciuto dall’85% del 2010 al 112% del Pil del 2023. I programmi economici/elettorali di entrambi i blocchi sono “pericolosi per l’economia”, secondo dell’Institut Montaigne che stima gli impegni di spesa annui totali del RN in 74 miliardi di euro. Il RN vuole a)tagliare le imposte sui salari per incoraggiare le aziende ad aumentare gli stipendi bassi del 10%; b)abbassare l’aliquota IVA sulle bollette dell’energia e del carburante dal 20% al 5,5%, c) una controriforma “progressiva” dell’età pensionabile riportata da 64 a 62 anni o a 60 anni per quelli che iniziano a lavorare a 20 anni; d)la nazionalizzazione delle autostrade. L’Institut stima che gli impegni di spesa certi ammonterebbero a 74 mld compensati da possibili incassi per 56 mld, non proprio ben definiti e di natura non certissima, con un saldo di 18 mld. all’anno di deficit aggiuntivo.
Il 21 giugno il Nouveau Front Populaire (NFP) di Melenchon e Glucksmann , assistita da Thomas Piketty, uno dei più importanti economisti a livello mondiale, ha presentato i suoi piani: a) di aumentare il salario minimo del 14%, costo 3,5 mld all’anno; b) ridurre i prezzi dell’energia e di altri “beni essenziali”, come i prodotti alimentari di base, costo altri 24 miliardi all’anno; c)l’annullamento della riforma delle pensioni di Macron. Le nuove uscite sarebbero parzialmente compensate con: a) la reintroduzione dell’imposta patrimoniale dovrebbe raccogliere 15 miliardi di euro; b) l’introduzione di una “exit tax” del 30% per chi lascia il paese, c) l’eliminazione dell’imposta fissa del 30% sui redditi finanziari; d) l’aumento dell’imposta di successione; e) l’imposizione di una tassa sui “super profitti” dovrebbe raccogliere 15 miliardi di euro; f) aumenteranno inoltre i benefici per l’alloggio e si renderanno gratuiti per tutti i pasti e le forniture scolastiche statali . La spesa annuale totale ammonterebbe a 25 miliardi di euro nel 2024, 100 miliardi di euro nel 2025 e 150 miliardi di euro entro il 2027, “ la spesa sarà ampiamente coperta dalle nuove entrate” si legge nel documento programmatico “ il conto finale da pagare non è niente in confronto ai 100 miliardi di euro pagati agli azionisti dalle prime 40 società quotate nel 2023”.
Le promesse ottimistiche dei politici francesi, come degli italiani soprattutto di destra, raramente vengono messe in pratica in quanto se i programmi di spesa sono certi molto più incerte sono le compensazioni delle entrate in quanto il capitale ha innumerevoli strade per sfuggire alle tassazioni. E poi ci sono gli incomodi mercati finanziari che possono far saltare qualsiasi governo mondiale e distruggere qualsiasi volontà popolare. E’ di queste ore una serie di “cautele” del signor Bardella nei “tempi” dell’attuazione del programma economico, con il chiaro intento di moderare le aspettative degli elettori e tranquillizzare i mercati. L’alleanza di sinistra potrebbe dover fare lo stesso, anche se la sua ardente retorica anticapitalista suggerisce che troverà questo difficile.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©