Cultura
Epicentro emotivo materno : il caso di Jenette McCurdy
Jenette sa di essere una bambina speciale, lo sa dall’età di sei anni o forse da sempre.
Jenette sa di essere una bambina speciale, lo sa dall’età di sei anni o forse da sempre. Lo sa dai dolci sguardi della madre, dalle sue risate forzate, dalle carezze che le riserva, dai complimenti e tutti quei gesti premurosi esclusivamente per lei. Non importava la presenza degli altri fratelli: Jenette era tutto per sua madre. Fino a quando però questo tutto si spinge nella sfera del normale? Fino a dove può giungere l’amore di una madre?
Jenette è solo una bambina di pochi anni quando viene introdotta nel mondo dello spettacolo.
I dolci occhi azzurri, i suoi capelli biondi e mossi conquistano da subito i produttori, ma soprattutto la capacità di obbedire a qualunque ordine le venisse dato. Una capacità innata nella bambina e che si trascina dalle mura domestiche per giungere sino all’ambito professionale. L’obbedienza, la riverenza si rivelano strumenti fondamentali in Jenette per gestire l’esasperante pressione a cui è sottoposta durante gli anni della sua crescita, e per sopravvivere ad un ambiente familiare disfunzionale.
A tracciare una cornice al limite della follia è proprio la madre della bambina, che fin dalle prime pagine si dimostra un chiaro esempio di madre narcisistica. Il narcisismo, si sa, viene descritto da molti come uno dei disturbi più incisivi, limitativi per chi ne soffre e per coloro che ne sperimentano gli effetti in modo riflesso.
Anche questo Jenette lo sa bene: lo sa in ogni singola smorfia della madre, quando questa inarca le sopracciglia o riserva delle “occhiatacce” punitive e ricche di accusa alla figlia se questa osa esprimere la propria opinione. E lei, pur di non deludere il proprio genitore, pur di ricevere amore ed elogi dalla madre è disposta a rinunciare a tutto.
Perché quella madre diventa il suo tutto, un epicentro emotivo e psicologico. Da qui il disperato tentativo di scongiurare le crisi emotive materne, le sue urla, i suoi singhiozzi. Era questo il dovere, il compito di una semplice bambina di sei anni; compito che perdura sino alla morte, a causa di un tumore, della madre.
In Sono contenta che mia madre sia morta, Jenette McCurdy, conosciuta come Sam nella famosa trasmissione di ICarly trasmessa da Nickelodeon, racconta una travagliata storia famigliare che segna inequivocabilmente la sua vita. Al di là di un titolo che a prima vista potrebbe suscitare scandalo, la lettura dell’autobiografia rivela il snodarsi di una trama sempre più complessa, dolorosa, di una prigione creata proprio dalla madre della ragazza.
Una prigione di invasione, limitazione, oppressione e isterie all’ordine del giorno: la madre di Jenette ad ogni doccia le esamina il corpo per cercare segnali di crescita; decide come, quando e con quale compagnia deve recitare; decide i suoi gusti, le sue emozioni, la sua crescita. In un rammaricante ricordo Jenette porta alla memoria il desiderio della madre di non vederla mai svilupparsi, introducendola persino all’anoressia. Quest’ultima viene giustificata dal fatto che la madre vuole solo “il meglio” per sua figlia e che di conseguenza lei sola sa cosa sia giusto o meno.
A questi ideali Jenette si piega, smettendo di mangiare, contando ossessivamente le calorie, sviluppando un disturbo ossessivo compulsivo che la spinge a lavarsi cinque volte le mani e a credere che a parlarle sia lo Spirito Santo. L’anormale diviene giustificabile per la madre di Jenette, rinchiusa in un circolo senza via di fuga.
Paradossale è, come si evince dal racconto, che malgrado la piccola a soli undici anni sia divisa tra scuola di recitazione, di danza, riprese da comparsa e apprendimento di numerosi copioni, la madre la spinga a fare sempre di più. Ogni sforzo della figlia sembra invano, e così quei spontanei sorrisi di Jenette diventano forzati, la sua vita un copione ormai privo di trama.
Il corpo di Jenette comincia a crescere, e così le manie di controllo della madre, al punto tale che era lei a scegliere i pasti da consumare, la quantità di essi, elogiando la figlia se non mangiava e obbligandola a pesarsi innumerevoli volte sulla bilancia.
Sarà solo molti anni dopo, alla soglia dei trent’anni che Jenette, trascorso tempo dalla morte della madre, deciderà di gettare la bilancia e affidarsi alle mani di uno specialista per disturbi alimentari. Anni in cui il senso di vuoto dovuto alla mancanza della madre diventa distruttivo, in una dolorosa battaglia tra alcolismo, bulimia e relazioni amorose tossiche e prive di sentimento.
La giovane donna, infatti, oramai cosciente delle sofferenze che vivere alle dipendenze di una madre narcisistica le ha provocato, deciderà di porre rimedio alle sue cicatrici emotive. Tra lati e bassi, si avvia una sorprendente scoperta di identità rispetto ad una vita passata in un silenzioso anonimato.
Il romanzo quindi si prefigura come un lungo e faticoso percorso di crescita, coinvolgente in quanto dal forte carattere universale, intimo e confidenziale che solo una capacità di scrittura quale quella dell’autrice può rivelare. Il lettore da subito sente l’urgenza di salvare quella bambina, e insegnarle, anche se poi spetterà alla stessa Jenette farlo, come amarsi e distanziarsi da una madre totalizzante. In un continuo climax emotivo, il romanzo si prefigura uno dei più rappresentativi sull’importanza delle figure genitoriali nella crescita dei propri figli e come anche personaggi dello spettacolo, spesso dipinti come intoccabili, abbiano alle proprie spalle un tracciato di dolore e fragilità, che spesso una società ingorda sente il dovere di celare.
RIPRODUZIONE RISERVATA ©