Cultura
La bellezza: ricordo di un’abitudine
Il tempo svolge un ruolo straordinario nell’individuazione della bellezza. Non di rado infatti, ciò che in origine ci appariva privo di qualunque attrattiva, può in seguito apparirci prezioso e questo perché un prodotto artistico porta con sé non solo la vita del suo autore, ma anche tutte quelle che incontra, sempre ricche e complesse.
Nel 1992 Mia Martini partecipò a Sanremo con il brano “Gli uomini non cambiano”. La critica si espresse molto negativamente sul pezzo, ma ciò non gli impedì di raggiungere il secondo posto della classifica finale del festival.
Nemmeno io lo apprezzai, perché mi sembrava che ricalcasse un cliché tutto sommato evidente già “Almeno tu nell’universo” cantato della stessa artista, quello della donna perdente nei confronti di uomini sempre solo mascalzoni e cinici e che, musicalmente non fosse stato fatto dagli autori alcuno sforzo per rendere il brano meno monotono, tanto da farlo risultare alla fine più simile ad una cantilena che non ad una canzone vera e propria.
È probabile che la critica avesse ragione e che anche il mio giudizio non fosse del tutto privo di fondamento, eppure il brano iniziò ad essere amato e cantato da tutti, fatto che ne decretò un successo che il tempo ha solo consolidato.
Qualcuno potrebbe pensare che a ciò abbia contribuito la prematura e tragica morte della Martini, ma le cose non stanno così, perché il successo il brano lo aveva già consolidato nel lungo tempo antecedente alla morte dell’artista.
Dobbiamo allora arguire che i critici di Sanremo non ne capiscono nulla di musica? Voglio pensare che non sia così, ma che piuttosto si sbagli a considerare un brano compiuto, “finito” nel momento in cui viene cantato per la prima volta sul palco di Sanremo. Tutt’altro. Da quel momento esso incomincia una sua vita autonoma, legata a tutti coloro che se ne innamorano, che la cantano e la fanno ascoltare.
Insomma, quella canzone inizia a percorrere le strade di città e paesi, si affianca inconsapevolmente alle vicende che attraversano quei luoghi e si carica di passioni, pensieri, paure che trascinerà sul suo carro. È proprio l’incontro del brano con questo sconfinato patrimonio immateriale, che altro non è che la costruzione della nostra memoria, a completarne il contenuto ed a regalargli il peso preciso che occuperà nel tempo e nell’immaginario collettivo.
Riascoltare quel brano sarà dunque e banalmente cercare ciò che il brano di noi ci racconta e per questo, non ci interesseremo più, se non incidentalmente, alla prima volta che lo ascoltando, ma alla storia scritta assieme a lui nel tempo ed esso avrà per noi un qualche interesse solo se saprà raccontarci quella storia.
È questo il valore del brano: la sua partecipazione alla costruzione della nostra memoria.
Ovviamente, pure ci saranno stati coloro che, molti o pochi, si saranno innamorati della canzone al primo ascolto o quei pezzi di folgorante bellezza per ispirazione autentica, ma questa è un’eventualità più rara quando si parla di creazione artistica.
Nella maggior parte dei casi, una canzone è frutto di un lavoro di costruzione, che può, assieme ad un’interpretazione non banale, portare a risultati di grande valore.
Tutte le volte che oggi mi capita di ascoltare “Gli uomini non cambiano” mi accorgo di provare una sensazione che non ha nulla a che fare con il giudizio che a suo tempo formulai e che ha un valore di tutto rispetto se paragonato anche ad altri di indiscutibile grandezza. Nel caso poi dell’interpretazione di Mia Martini, il tempo ne ha fatto emergere la profondità e la raffinatezza che in arte fanno senz’altro la differenza. Tuttavia questo, a mio giudizio non esclude e non può escluderlo se parliamo di un pubblico di esseri umani il processo inevitabile di formazione di quella memoria individuale e collettiva a cui ho poc’anzi fatto cenno e che si alimenta anche di una certa dose di casualità.
Rosamaria Fumarola
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