Cultura
Arte, religione e costruzione del sacro
Le ragioni profonde dell’arte e della religione trovano il loro nucleo in una ricerca teleologica, nel superamento cioè del buio che ci impedisce di scorgere il fine delle nostre vite e che ci testimonia la sofferenza del non sapere, del nostro procedere sempre bendati verso il futuro.
Tutto cambi perché nulla cambi. La celebre frase contenuta ne “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa individua un topos da sempre presente nella cultura dell’uomo e cioè il dubbio se tutto ciò che ci riguarda sia un prodotto dei tempi o se esprima invece una natura immutabile, ripetitiva e sempre uguale a sé stessa. La Rivoluzione dei Lumi, ad esempio, generò in tanti il convincimento che la fede in entità divine non avrebbe da quel momento in poi potuto trovare posto nelle vite umane. Sappiamo bene che così non è stato: la fede nel soprannaturale risponde ad un interrogativo che ci caratterizza da sempre ed a cui scegliamo di rispondere a seconda dell’influenza della cultura o dell’istinto, ma che ci accompagna comunque.
Lo sanno bene gli archeologi che, in qualsiasi parte del mondo scavino incontrano testimonianze della presenza della fede nel sacro e questo in ogni tempo della storia dell’uomo. Allo stesso modo, tutte le civiltà sono state sin dall’origine caratterizzate dalla presenza di narrazioni, orali o scritte, in cui storia e mito sono fusi assieme in un intreccio inestricabile e che per questo ha creato e crea enormi difficoltà interpretative. Siamo da molti secoli infatti abituati a separare i vari campi del sapere e non cerchiamo ad esempio dati storici in ciò che chiamiamo poesia. Distaccato o meno dalla narrazione storica o dalla religione il racconto non risulta mai “calato dall’alto”, imposto, ma sembra rispondente ad un nostro bisogno insopprimibile, che si manifesta sin dall’ infanzia e si concretizza nella rappresentazione di sé. Nel teatro contemporaneo non troviamo elementi epici, o almeno così ci sembra, benché sarebbe più corretto ricordare che non vi sono elementi dell’epica in senso tradizionale, quanto piuttosto nuovi e diversi segni dell’epica che evidentemente ci accompagna anch’essa da sempre. Comprendiamo ed amiamo Catullo ad esempio, ma i frammenti poetici di Alceo, che narrano degli scontri politici della Grecia arcaica in cui il poeta stesso era coinvolto, ci appaiono più lontani e meno condivisibili. Sono in ogni caso narrazioni e le narrazioni fanno ancora parte della nostra vita quotidiana, non diversamente da quanto lo furono l’Iliade e l’Odissea per i greci antichi. Anzi, proprio l’eterna disputa riguardante l’esistenza o meno del loro autore, ci parla di un raccontarsi talmente necessario da prevalere sulla figura di chi lo abbia prodotto. Ma perché abbiamo così tanto bisogno di rappresentarci? Ci cerchiamo infatti nelle canzoni d’amore di Sanremo, così come abbiamo bisogno del lieto fine in un film. Feuerbach, lo studioso considerato il primo materialista della storia della filosofia occidentale e che precedette Marx, individuava nella religione la cosiddetta “alienazione dell’uomo in dio” cioè la creazione di un essere scevro da tutti i limiti che l’uomo avverte e subisce suo malgrado.
Tutto ciò non è poi così lontano dalle ragioni profonde dell’arte, che trovano il loro nucleo in una ricerca teleologica, nel superamento cioè del buio che ci impedisce di scorgere il fine delle nostre vite e che ci testimonia la sofferenza del non sapere, del nostro procedere sempre bendati verso il futuro ed in ultima analisi del nostro non accettare la morte. Di questo ci parlano i templi dedicati alle divinità classiche e l’epica di Esiodo. Di questo ci parlano i testi della musica neomelodica napoletana e persino di quella rock. Tutte le rappresentazioni artistiche e religiose ci raccontano direttamente o indirettamente la necessità di un senso ed il senso del sacro che le accompagna trascina con sé il dolore e la paura che assieme a poco altro caratterizzano, queste sì con certezza, la quotidianità di ogni essere umano.
Rosamaria Fumarola
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