Inchiesta
Da Hong Kong all’Ucraina per un debito d’onore – storia di due aspiranti foreign fighters
Ma cosa spinge due onesti cittadini, con una professione avviata, una vita regolare e già entrati in quella parte della gioventù – se gioventù vogliamo chiamarla ancora – in cui gli entusiasmi sono ormai temperati, a lasciare tutto e partire per un paese straniero con il rischio di farsi ammazzare?
Di Benedetta Piola Caselli
S. e A. hanno trentacinque anni e sono due seri professionisti – lei infermiera, lui operatore socio sanitario – composti e posati.
Per questo, anche, ho un moto di incredulità quando mi dicono di essere venuti a combattere per l’ Ucraina, ma soprattutto ce l’ho per un’altra cosa: sono cinesi.
“Di Hong Kong” precisano “e abbiamo un’altra cultura, una cultura molto più europea, data l’influenza inglese”.
Ma cosa spinge due onesti cittadini, con una professione avviata, una vita regolare e già entrati in quella parte della gioventù – se gioventù vogliamo chiamarla ancora – in cui gli entusiasmi sono ormai temperati, a lasciare tutto e partire per un paese straniero con il rischio di farsi ammazzare?
“Un debito d’onore” dicono.
La storia è incredibile, perché il debito d’onore sarebbe questo: durante gli scontri del 2019 ad Hong Kong, alcuni studenti ucraini si sono uniti alla protesta scendendo in strada con i manifestanti e lanciando una campagna social di solidarietà.
Quanto possa essere stata grande la solidarietà ucraina ai manifestanti di Hong Kong non è facile dire, ma certo deve avere toccato qualcosa di profondo se oggi ha portato A. e S. a sostenere la loro lotta.
E’ un’ idea che attraversa tutte le frontiere e scalda il cuore: dall’altra parte del mondo qualcuno ti sostiene.
“Noi sappiamo che l’Ucraina oggi si ribella ad un’aggressione armata di un paese potente, la Russia, come noi allora ci siamo ribellati alla prepotenza di un paese potente, la Cina”, dice S.“e quindi in questo siamo affratellati”.
S. e A. , con mia sorpresa, decidono di concedermi un’intervista per raccontare la loro breve esperienza di foreign fighters, finita in un modo inaspettato.
Quando avete deciso di diventare foreign fighters?
“Appena abbiamo saputo che l’Ucraina reclutava persone da tutto il mondo, ci siamo detti: dobbiamo fare la nostra parte. Ovviamente, in modo diverso: io avrei aiutato come infermiera, mentre lui era disposto a combattere”.
Come si fa ad arruolarsi? Presentandosi ai Consolati?
“Noi abbiamo risposto ad un annuncio su facebook: abbiamo scritto una lettera presentandoci, spiegando quello che sapevamo fare e dicendo che, se ci volevano, eravamo pronti a unirci all’esercito. Dopo qualche giorno è arrivata una risposta. Ci chiedevano di andare in Polonia, dove avremmo ricevuto altre informazioni. Così siamo partiti, siamo arrivati nel punto stabilito, e poi abbiamo aspettato in attesa di istruzioni.”
Quindi siete arrivati in un paese straniero senza sapere cosa fare?
“Si. L’attesa è stata un po’ angosciante, perché eravamo pieni di entusiasmo e non sapevamo che cosa potesse essere successo. Ci domandavamo se ci avessero ripensato. Al terzo giorno siamo stati contattati, ci è stato indicato un punto di raccolta e abbiamo finalmente incontrato un referente”.
Che cosa è successo poi?
“Ci è stato chiesto di dare la disponibilità a tempo indeterminato, quindi di rimanere con l’esercito fino alla fine della guerra. Ci è stato chiesto di firmare un vero e proprio impegno scritto. Abbiamo preso la cosa molto seriamente, perché non vorremmo mai rimangiarci la parola data. Sapevamo, per varie ragioni, di poter restare solo meno di 180 giorni: abbiamo chiesto se la guerra sarebbe finita prima di allora. Ci hanno risposto che nessuno poteva saperlo.”
Perché non potevate rimanere per un tempo limitato?
“Lo abbiamo chiesto, ma per ragioni militari non era possibile. Forse si temeva una fuga di informazioni riservate permettendo alle persone di allontanarsi, comunque la regola era tassativa: se si entra nella lotta, si combatte fino alla fine della guerra. Quando ho provato ad insistere mi è stato detto: “Non ti abbiamo chiesto noi di venire ma, se vuoi venire, le regole sono queste”. Abbiamo dovuto rinunciare a malincuore.”
I foreign fighters sono pagati?
“Noi avremmo avuto un rimborso di 70 sterline inglesi alla settimana (circa 80 euro): certamente non lo facevamo per soldi”.Fra qualche giorno S. e A. torneranno a casa con un po’ di tristezza per non avere contribuito alla causa come volevano e, mi viene da dire, l’ufficio di propaganda ucraina ha perso un colpo mica male per pubblicizzare la resistenza: i due volontari asiatici sarebbero stati dei testimonial perfetti per la comunicazione. Ma, forma a parte, resta la sostanza. Il messaggio che al tempo gli scaldò il cuore dei manifestanti di Hong Kong è reciprocato: “qualcuno dall’altra parte del mondo vi pensa e vi sostiene”.Il debito è stato onorato.
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