Attualità
L’Odissea post moderna e la paura di fallire
In una società postmoderna quale quella in cui viviamo, ogni giorno è sempre una nuova sfida. Dal singolo istante in cui nasciamo, veniamo calati in una competizione implicita con il mondo.
In una società postmoderna quale quella in cui viviamo, ogni giorno è sempre una nuova sfida. Dal singolo istante in cui nasciamo, veniamo calati in una competizione implicita con il mondo. Il fine ultimo è sempre il medesimo: dimostrare a qualcuno di non definito qualcosa di altrettanto indistinto. Si parte quindi dall’asilo, con il disegno migliore, la bambola più bella da ostentare e il grembiulino più pulito. Si giunge in seguito al bambino più bravo della classe, a quello più educato, a quello più ricco e all’altro fin troppo “depresso” e solo.
Si arriva a diventare delle piccole miniatura con affianco un cartello di notevoli dimensioni sul quale ciascuno dei soggetti da noi incontrati appone un’etichetta. Una descrizione di chi siamo o chi, secondo tali individui, dovremmo essere.
Crescendo, di conseguenza, il mondo ci appare come un grande gigante da dover fronteggiare. Gli altri, invece, sempre più efficienti di noi: ciascuno delle persone che conosciamo sembra essere perfetta.
La perfezione però non è che un traguardo irraggiungibile che l’uomo si è proposto per giustificare la sua ostentata corsa verso il nulla morale. Un puntare il dito al cielo, quando il cielo stesso appare come una vetta insormontabile, un qualcosa che mai nessuno potrebbe toccare.
Altrettanto difficile diventa raggiungere gli standard che la società post moderna sembra proporre: conciliare lavoro, famiglia, studio, hobby, fare la spesa, pagare le bollette, pagare il fitto ecc. Tutto questo nell’arco di una singola giornata, che forse dovrebbe passare da 24 a 48 ore. Il tempo non basta mai, e il suo scorrere suscita uno stato di ansia e disperazione. Vorremmo fare tante cose, ma dinanzi al tempo stesso e alla marea di cose in cui ci si ritrova coinvolti, non rimane altro che osservare inermi uno scenario che ci appare irrisolvibile.
Vincere la paura del fallimento di Hans Morschitzky, si rivela un’opera propedeutica al quadro descritto fino a questo momento. Psicologo e psicoterapeuta, Morschitzky lavora in una clinica statale a Linz, dove si occupa di diversi casi che vengono riportati (con delle trasfigurazioni) all’interno dei suoi testi.
Attraverso un processo di analisi individuale, l’autore delinea quelli che sono i tratti fondamentali della paura di fallire, e che hanno come punto di principio il costante senso di inferiorità percepito verso gli altri. Quante volte la nostra mente si applica nel creare dei meccanismi che dimostrano la nostra incapacità nel compiere anche un banale gesto. Quante volte ci si ritrova a pensare di essere poco speciali, insignificanti, proprio perché gli altri sembrano possedere qualità in noi assenti?
Tutti questi aspetti vengono enunciati nel saggio, che non si limita solo ad analizzare le origini del fallimento. In un percorso guidato alla conoscenza di sé, l’autore mette in luce quelle che possono essere le conseguenze della paura stessa di fallire. Nello specifico riporta casi clinici di persone vittime da dipendenze, che siano esse di alcolici o di circoli mentali viziosi difficili da abbattere.
Insomma Morschitzky si dedica alla decostruzione di un sentimento dipinto spesso come di poca meritevole importanza, ma che fin troppo incide nella vita quotidiana. Si pensi per esempio ai recenti casi di studenti che hanno posto fine alla loro vita proprio a causa degli insuccessi universitari e della troppa pressione percepita.
La paura di fallire si insidia come un parassita nell’animo di chi la sperimenta, per diventare un organismo totalmente a sé stante dalla forza brutale, o per poter essere sconfitto con pazienza ed energia.
Ciò che quindi l’autore propone, in conclusione ad una presentazione sommatoria, è il riconoscere di per sé la paura di fallire e di non condannarla, come se si fosse in un tribunale morale. Di apporre una forma di giustificazionismo rispetto al sentimento di ansia stessa, la quale merita ascolto e un riconoscimento di sé.
Di riconoscere come, già dall’infanzia, spesso e volentieri ci venga chiesto di dare il massimo e rispondere con un sonoro NO a questi meccanismi morbosi. Il fine ultimo non è solo quello di distanziarsi dalla follia sociale che colpisce la maggior parte degli individui, ma di iniziare un viaggio (un’odissea moderna) verso la scoperta introspettiva delle proprie emozioni. Esse quindi devono vivere di ascolto, risonanza, proprio per la loro imprescindibile natura e per essere parte cruciale della nostra vita.
La vita, quindi, non è una lotta continua verghiana alla sopravvivenza, ma una lunga e intensa strada fatta di avvenimenti le cui sole ripercussioni dipendono dalle nostre scelte. Nulla è controllabile, niente è conoscibile per intero. Dinanzi ad un futuro incerto non bisogna mai rispondere negativamente, ma sempre (anche con possibili dubbi) con un atteggiamento di slancio e fiducia verso le proprie capacità.
Cita Khalil Gibran: “Coraggioso non è colui che non conosce la paura, bensì colui che conosce la paura e la supera“.
Questo quindi non è solo un semplice prospetto dell’autore del saggio, ma un traguardo da raggiungere per vivere una vita in piena conciliazione con le proprie paure, anche quella di fallire.