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Italia, sette volte colpevole

La Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato per la settima volta l’Italia per la mancata tutela di una donna vittima di violenza e dei suoi figli. Esiste nel nostro paese una corposa normativa, la cui ratio è proprio la protezione delle donne da questo tipo di maltrattamenti, eppure la realtà denuncia tutta l’inefficacia della legislazione, perché?

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“Una donna da sola non può gestire un uomo violento. Pensavo che il sistema mi proteggesse. Nessuno mi ha tutelata, nemmeno i carabinieri, che quando mi rifugiavo dai miei genitori, mi parlavano di un possibile allontanamento del bambino, di conflitto, quando io volevo solo dormire una notte tranquilla perché mi aveva menata di brutto. Ti invitano a fare pace e tu che fai? Fai la pace, torni a casa e ti metti in pericolo. Ho vissuto anni d’inferno e ora, dopo quasi tre anni dalla denuncia, comincerà il processo penale”. 

Così scriveva una donna vittima di violenza che lo stato italiano ha lasciato da sola, a Nadia Somma, attivista del centro antiviolenza Demetra. Esiste infatti in Italia una diffusa diffidenza nei confronti di chi denuncia la violenza maschile, eppure anche soltanto la lettura delle poche righe sopra trascritte rivela l’essenziale, ciò che c’è da sapere quando si parla di abusi contro le donne. Il primo ed imprescindibile assunto ad esempio è quello che una donna non può da sola porre un limite alla violenza maschile ed ha bisogno di un sostegno che le nostre istituzioni sulla carta promettono ma nella concretezza non realizzano, perché le forze dell’ordine rivelano spesso un atteggiamento miope, spingendo ad una conciliazione che lascia di fatto la vittima tra le braccia del suo carnefice e favorisce l’innescarsi di meccanismi viziosi, che anche chi non ha dimestichezza con la psicologia conosce bene. L’intervento degli agenti di polizia o dei carabinieri sembra spesso volta a ripristinare l’equilibrio di un focolare domestico che non esiste, quello delle favole scritte dagli uomini, in cui una donna è moglie e madre, sempre subordinata ad un capofamiglia. La società è cambiata, lo sappiamo tutti, ruoli di potere e di prestigio non sono più ricoperti solo dal sesso cosiddetto forte,  esiste una copiosa normativa che punisce e sanziona chi si renda responsabile di qualunque forma di violenza di genere, esistono centri antiviolenza ed un numero a disposizione di chi abbia bisogno di aiuto, attivo 24 ore su 24, eppure il meccanismo di tutela effettiva è lentissimo e nella maggior parte dei casi non prende nemmeno avvio. Quando invece si arriva al processo è trascorso così tanto tempo che è un miracolo se le vittime siano ancora in vita. Denunciare non spezza le catene dell’inferno ma al contrario scatena un’escalation che non lascia prigionieri ed allora molte donne preferiscono fare un passo indietro, nell’illusione che lo schiaffo di oggi sia meglio della coltellata di domani ed ignorando (senza colpa alcuna) che chi agisce la violenza, per il solo fatto di considerarla uno strumento legittimo di risoluzione delle proprie controversie, non riconosce nella pacificazione una strategia degna di interesse e la scambia per una resa dell’altra parte a qualunque condizione che un maschio desideri fissare.

È anche per questo che la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato per la SETTIMA VOLTA il nostro paese per la mancata tutela di una donna vittima di violenza e dei suoi figli. Gli organi preposti a porre in essere le misure necessarie a ridurre la violenza di genere sembrano infatti NON RICONOSCERLA nei casi concreti. Il sospetto è che tra le disposizioni legislative e tali organi si frapponga UNA CULTURA MISOGINA, che finisce col produrre una ulteriore VITTIMIZZAZIONE,  quella ISTITUZIONALE. Nei tribunali italiani vengono spesso confusi i concetti di violenza e conflitto, lasciando spazio ad una BANALIZZAZIONE DEL MALTRATTAMENTO, con la conseguenza che i procedimenti per violenze domestiche si concludono con sentenze di “non luogo a procedere” già al termine delle indagini preliminari. Le denunce risulterebbero infatti in qualche modo “false”, esagerazioni che rendono le donne sempre meno credibili. È per questo che la Corte Europea ritiene che in Italia non sia esercitata la necessaria diligenza e che le donne vengono giudicate come artefici di un’esagerazione del conflitto. A ciò si aggiunga che,  secondo la Corte, nel belpaese non viene posta in essere alcuna attività di monitoraggio in seguito ad una denuncia di maltrattamento e violenza.

È giusto dunque, che le donne italiane sappiano che ancora oggi, se malauguratamente dovessero diventare oggetto di violenza, il loro destino sarebbe quello di entrare a far parte di un esercito di vittime le cui parole non sono ascoltate, o non credute o banalizzate e che la possibilità che paghino con la vita il legittimo diritto alla pace ed alla libertà risulterebbe essere purtroppo la più concreta.

Rosamaria Fumarola 

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano