Attualità
Le epidemie nella letteratura
di CARMELO PIO CASTIELLO
Cosa ancora insegnano i grandi del passato per il futuro
“Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. […] La peste e la guerra colgono tutti sempre impreparati.”
Sono queste le parole con cui il francese premio Nobel Albert Camus esordiva nel suo celebre romanzo “La Peste”, per bocca del medico francese Rieux, bloccato nella città algerina di Orano poco prima dello scoppio di una violente piaga. Parole che sembrano essere state scritte nel 2020, e che invece sono il frutto della genialità di un uomo ed intellettuale del secolo scorso. Quest’opera, lucida analisi dei comportamenti dell’uomo durante ogni sorta di crisi, non è però l’unica a proporre e a far riflettere su un tema, quello dello sviluppo e diffusione delle epidemie, sminuito e trascurato nella sua importanza.
La pestilenza, con la quale ci troviamo oggi a convivere per la prima volta dopo parecchi anni, veduta però come una condizione straordinaria e quasi surreale, era fino a non molto tempo fa una constante nelle civiltà umane ed era, assieme a guerre e carestie, ineluttabile e beffarda come il destino. Gli antichi la paragonavano ad un’enorme falce che taglia indistintamente tutti i fiori del campo (la malattia non risparmia nessuno) e ciò ha contribuito significativamente allo sviluppo della famosa iconografia della morte nei neri panni di un carnefice che brandisce con forza questo allegorico strumento agricolo al pari del feroce Saladino con la sua affilatissima scimitarra .
La letteratura, specchio della società, ha da sempre fatto proprio questo modello, causa di dissertazione e polemiche, creando un topos letterario che pone le sue radici nel cuore della civiltà occidentale, nella Grecia predorica e micenea: sono infatti i poemi omerici, frutto di un secolare tramandarsi di gesta eroiche fra aedi e rapsodi, i primi a presentare al lettore di ogni tempo uno strano “morbo” che affliggeva i soldati Achei nell’assedio della “porta dell’Ellesponto”, causato secondo la tradizione da una punizione del Febo Apollo, schierato dalla parte dei sudditi di Priamo in una contesa che trascendeva i campi di battaglia e arrivava a trovare la sua origine mitologica addirittura nel Fato.
Ancora nella civiltà classica, fra la Grecia e Antica Roma, sono presenti altre due narrazioni che intendono lasciare ai posteri la tragedia della peste di Atene, identificata con un’epidemia di vaiolo: Le storie del greco Tucidide e il De rerum natura del poeta latino Tito Lucrezio Caro. Le due opere imprigionano su carta il paesaggio di una città decadente, in cui tutti gli abitanti si rinchiudono pur di sfuggire alla malattia, i governanti cadono uccisi da un nemico invisibile (tra cui lo stesso Pericle, simbolo dell’età dell’oro di Atene) e le eterne guerre contro l’arcinemica Sparta cessano per paura del contagio. Se da un lato lo storiografo ellenico si concentra sulla mera e semplice rappresentazione di cotanta distruzione, in Lucrezio, per mezzo della fusione fra le teorie epicuree concentrate in tutto il poema e la vicenda storica, la narrazione strizza l’occhio a sentimenti, reazioni e paure della popolazione angosciata che risponde in base alla propria fisionomia umana in modo differente agli stessi eventi, in una progressiva climax di dolore e disperazione senza limiti.
Giovanni Boccaccio, poi, parla con estrema attualità della peste nera, che distrusse la sua famiglia, lasciandolo solo col fratello Iacopo di nove anni. La pandemia medievale, arrivata come al solito dall’Estremo Oriente, si diffuse per mezzo dell’assedio mongolo della città di Caffa: i soldati del Gran Khanato mandavano morti infetti con le catapulte all’interno della città, a mo’ di rudimentale arma batteriologica e, a causa dei commerci con Genova, che deteneva il controllo della Crimea, si diffuse subito in Italia e in Europa. Lo scrittore fiorentino impiega il topos come cornice per il suo capolavoro, il Decameron, anche se la descrizione che ne fa mette i brividi e non lascia dubbi sul fatto che in quasi settecento anni di storia nulla sia cambiato: la “mortifera pestilenza” non si ferma neppure davanti alle dogane e nonostante i “molti consigli” niente da i risultati sperati e in primavera il morbo “ orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti”, mentre si afferma anche che chi “ in quelle case raccogliendosi e racchiudendosi” non sentiva l’effetto della malattia, mentre coloro i quali “il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e misura” “pranzavano coi parenti e cenavano con gli avi”. Altri ancora si proponevano come “dottori del nulla” poiché nessuno dava risposta alle loro preoccupazioni, alimentando superstizione e pratiche poco ortodosse.
L’Ottocento, con il suo lugubre gusto per il goticheggiante, l’oscuro e il misterioso ben assimila la tradizione precedente e il novellista statunitense Edgar Allan Poe propone due distinti racconti brevi con cui fa scaturire nel lettore diversi ma attualissimi pensieri. Nel Re Peste- un racconto contenente un’allegoria i ridicoli marinai Legs e Tarpaulin, ebbri e accecati dalla smania di ricchezza, sperano di trovare in una Londra vuota e fredda, con la gente che maledice gli spiriti dal balcone, qualcosa di loro gradimento e, dopo la rapida consumazione di alcol in quantità, si recano presso la casa di un ricco becchino, trovandoci dentro grottesche caricature dei vari morbi, con cui lottano invano, portandoli metaforicamente con sé: è l’eterno dissidio fra economia e salute, che negli ultimi giorni sta sconvolgendo il Bel Paese e si fonde con cattivi comportamenti e avidità. La novella La maschera della morte rossa parte con un ballo in maschera nel palazzo dello stravagante principe Prospero con i suoi cortigiani nel bel mezzo di un epidemia, fino a quando uno dei convitati non si toglie la maschera e si rivela essere un brutto male, che uccide ad uno ad uno gli invitati e lascia solo il silenzio tombale come testimone.
Una visione più apocalittica e catastrofica della condizione sociale e psicologica dell’uomo durante l’epidemia si trova invece nel romanzo Cecità di José Saramago, premiato poi col Nobel per la Letteratura. Immerso in un’atmosfera modernissima ma dai contorni sfumati, il racconto parte con un’improvvisa malattia apparsa quasi dal nulla in una città sconosciuta, che a poco a poco sconvolge inevitabilmente la vita di tutti, ricchi e poveri, vecchi e giovani. Questa nuovo male causa un appannamento della vista, evitato quasi per caso solo dalla moglie di uno dei primi medici ad osservare questo fenomeno. La carenza di persone sane impedisce le produzioni di beni di prima necessità e causa negli uomini una nuova e vera rivoluzione di stampo hobbesiano, in cui si preferisce sopraffare e scavalcare l’altro anziché prestargli soccorso. La donna, unica rimasta immune al morbo così come ai feroci impulsi primitivi, vede di fronte a sé un mondo desolato e bestiale, in cui anch’ella è costretta a ricorrere alle mani pur di sopravvivere, fino a quando la malattia scompare con la stessa celerità con cui era sopraggiunta.
In conclusione, quindi, seppure la letteratura sia un iperbolico mondo di esagerazioni e finzioni, essa può ancora essere maestra di vita, risuonando come un monito di quei “corsi e ricorsi della storia” vichiani che solo un profondo cambiamento nell’indole umana potrà sradicare dallo svolgersi degli eventi dando così avvio ad una nuova età dell’oro che porti pace e prosperità al mondo intero.