Mettiti in comunicazione con noi

Società

Giuseppe Taliercio e Adil Belakhdim, la Storia che rischia di ripetersi

La tragica morte del sindacalista Adil Belakhdim è la conseguenza di forti tensioni sociali. Tensioni sociali che portano a manifestazioni pacifiche. Sempre più spesso, però, portano a violenze. Tensioni sociali che rendono attuale una domanda che ha attraversato i secoli. Ha più valore il capitale o la forza lavoro? Il padrone o il proletario? Domande semplici da fare. Teoricamente è semplice anche la risposta. Hanno lo stesso valore. La stessa dignità.

Pubblicato

su

Credit foto wikipedia.org

Credit foto wikipedia.org

Di Pierdomenico Corte Ruggiero

La tragica morte del sindacalista Adil Belakhdim è la conseguenza di forti tensioni sociali. Tensioni sociali che portano a manifestazioni pacifiche. Sempre più spesso, però, portano a violenze. Tensioni sociali che rendono attuale una domanda che ha attraversato i secoli. Ha  più valore il capitale o la forza lavoro? Il padrone o il proletario? Domande semplici da fare. Teoricamente è semplice anche la risposta. Hanno lo stesso valore. La stessa dignità. Eppure la realtà non è mai semplice. Gli interessi imprenditoriali e quelli della forza lavoro sono spesso in conflitto. Conflitto che ci apprestiamo a vivere nuovamente.

Il Covid ha colpito duramente l’economia. Le aziende avranno necessità di ridurre i costi. Di razionalizzare. Questo significa anche licenziamenti e un diverso mercato del lavoro. Un mercato che sfrutta, spesso, la disperazione di persone disposte a tutto pur di lavorare. I sacrosanti diritti dei lavoratori costano. Stipendi. Le misure di sicurezza sul lavoro. Gli oneri contributivi. Spesso, troppo spesso, i diritti dei lavoratori vengono calpestati. Spesso, troppo spesso, gli imprenditori vengono lasciati soli. Senza il necessario sostegno economico e legislativo. Diventa cruciale l’intervento dello Stato. Per mediare. Per garantire, con severità e senza compromessi, i diritti dei lavoratori. Per dare sostegno all’imprenditoria onesta e capace. Vista la fragilità del nostro sistema economico non possiamo affidarci solo alle leggi del libero mercato. Anche per evitare di rivivere una tragica pagina della nostra storia.

Il boom economico era durato poco e non aveva portato benefici per tutti. I ricchi anni 60  lasciano il posto alla crisi degli anni 70. Il confronto sociale diventa scontro. Armato. Le legittime istanze dei lavoratori trovano una risposta che di legittimo non aveva nulla. Il terrore entra nelle fabbriche. Dirigenti rapiti e gambizzati. Attentati. Atti dimostrativi. Omicidi. Il proletariato sfruttato ha il diritto di usare le armi. Questo era possibile leggere nei volantini scritti dalle Brigate Rosse. Questo era il clima negli anni 70. Il caos nelle fabbriche. Una violenza che colpiva i «padroni». Che colpiva anche i lavoratori. Come dimostra l’omicidio di Guido Rossa. Una violenza che ha colpito anche Giuseppe Taliercio.

Nato a Carrara, con origini ischitane, Taliercio era laureato in Ingegneria e direttore generale dello stabilimento petrolchimico della Montedison di Porto Marghera. Incarico di grande prestigio e responsabilità . Incarico molto pericoloso.  Perché è il 1981. La tensione nello stabilimento Montedison di Porto Marghera è altissima. Inquinamento. Morti sul lavoro. Il 29 gennaio 1980  venne ucciso Sergio Gori. Vicedirettore dello stabilimento. Il 12 maggio 1980 viene ucciso Alfredo Albanese. Commissario della Polizia di Stato che indagava sull’omicidio Gori. Giuseppe Taliercio è nel mirino. Eppure Taliercio non era certo il freddo esecutore delle sanguinarie strategie padronali. Come veniva definito dalle BR. Era un cattolico fervente. Aveva conosciuto la moglie nell’Azione cattolica. Una fede che si manifestava anche nella sua gestione del petrolchimico.  Provvedeva, anche personalmente, alle necessità degli operai bisognosi. Taliercio era una brava persona. Un uomo buono. Questo dichiarano le persone che lo hanno conosciuto. Una persona che rappresentava la risposta giusta alle tante problematiche sociali. Diventa, invece, la risposta sbagliata e sanguinaria delle Brigate Rosse. Il 20 maggio 1981 alcuni brigatisti prelevano Taliercio dalla sua abitazione. Verrà portato in una «prigione del popolo». Per i brigatisti era «un responsabile di un delitto sociale come le morti sul lavoro o l’inquinamento». Dopo l’omicidio di Aldo Moro e l’omicidio di Guido Rossa era evidente la frattura tra Brigate Rosse e mondo del lavoro. Decisioni ottuse e sanguinarie. E’ oggettivo che per diverso tempo le Brigate Rosse hanno goduto di appoggio e sostegno. Nelle fabbriche, nelle università, negli ospedali, anche nelle articolazioni della Pubblica Amministrazione. Per molti le Brigate Rosse potevano essere la risposta giusta. Un po’ il Robin Hood che protegge i deboli. Però le Brigate Rosse che rapiscono Sossi e poi lo liberano, nel 1974 cambiano pelle. Dal 1970 al 1974  le Brigate Rosse seguono la strategia della propaganda armata. Generalmente atti dimostrativi. Dopo il 1974 le cose cambiano. Mario Moretti assume la guida delle Brigate Rosse. La propaganda armata diventa lotta armata. Basta atti dimostrativi. Si spara per uccidere. Robin Hood diventa Robespierre. Le Brigate Rosse non hanno visione politica. Non seguono logiche di giustizia. Il rapimento di Giuseppe Taliercio è la definitiva e tragica conferma. Dura 46 giorni la sua prigionia.

Viene maltrattato. Taliercio rimane fermo e dignitoso. Lui ha la forza delle sua fede e dei suoi giusti ideali. I brigatisti, invece, sono incattiviti dal fallimento. Pensavano di trovare in Taliercio un nemico. Trovano invece una persona migliore di loro. Paolo VI, nel 1978, si era rivolto «agli uomini delle Brigate Rosse» per fare appello al senso di umanità che sperava ancora vivo nei brigatisti. Appello inutile, Aldo Moro venne ucciso. Viene ucciso, senza nessuna umanità, anche Giuseppe Taliercio. Il 5 luglio 1981. Odio, mancanza di umanità. Che trovano come risposta il perdono della famiglia della vittima. Queste le parole della moglie di Giuseppe Taliercio: « Quando qualcuno si meraviglia per il perdono che abbiamo concesso agli assassini di Pino nonostante tutta la crudeltà, tutto l’odio che hanno mostrato e manifestato contro di lui e contro di noi, io e i miei figli rispondiamo in maniera semplice e chiara: la strada del perdono, dell’amore, della bontà è l’unica che Pino ci ha insegnato. Sempre».

Ci troviamo, nuovamente, davanti ad un bivio.  Non possiamo scegliere la strada sbagliata. Non possiamo scegliere la risposta sbagliata.