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Cultura

Aphra Behn, femminista ante litteram, coraggiosa e spregiudicata

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di MARIAPIA METALLO

“E tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn, che si trova assai scandalosamente, ma direi giustamente, nell’abbazia di Westminster, perché fu lei a guadagnare loro il diritto di dar voce alla loro mente.” Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé

Poco conosciuta dal grande pubblico odierno, anzi ignorata e svilita come autrice per tre secoli, Aphra Behn, scrittrice, poetessa e drammaturga, veniva messa all’indice dalla pruderie del tempo che considerava alla stregua di una prostituta la donna che scrivesse per denaro. Penna assai prolifica e anticonformista, fustigatrice dei costumi delle classi sociali di allora, la Behn fu antesignana nell’affrontare argomenti scabrosi quali l’omosessualità, l’impotenza, la violenza sessuale. Divenne oggetto di insulti feroci da parte dei critici e censurata per tutta la sua vita, che condusse attraverso vicende drammatiche e avventurose: una femminista ante litteram, coraggiosa e spregiudicata. La Behn visse in quel periodo della storia monarchica inglese chiamato il periodo della Restaurazione. Nel suo primo importante viaggio visita una colonia inglese sul fiume Suriname in Venezuela, dove è quasi accertato l’incontro con un principe africano tenuto in schiavitù, che le offre lo spunto per scrivere una delle sue opere più famose “Oroonoko, or the Royal Slave”, considerato come primo romanzo “abolizionista” mai scritto da una donna. Infatti, Aphra Behn ha scritto un romanzo antischiavista e dimostra di essere legata al suo personaggio non solo tramite la scrittura, che gli ha dato la vita; ma sente di essere legata a lui da un affetto tenerissimo, paragonabile all’amore di una madre verso suo figlio. La vicenda di Oroonoko è tragica e si risolve con l’affermazione di un codice d’onore che sopravvive all’usurpazione delle tradizioni e della cultura. Oroonoko, orgoglioso e tenace principe di un regno della Costa d’Avorio, viene deportato nei Caraibi e privato della sua autorità: ha inizio così la sua vita da schiavo. Aphra Behn, riconosce che la vita degli schiavi non era certo facile, ma è consapevole della ricchezza che il commercio con le colonie poteva portare alla corona britannica e di quante persone potessero beneficiare di tale ricchezza. Di conseguenza, non condanna apertamente il colonialismo, perché ne riconosce il potenziale economico; ma non accetta la precarietà delle condizioni di vita degli schiavi e lascia che sia il lettore a giudicare. Behn aveva compreso che l’incontro tra i due mondi era avvenuto, ma il prezzo da pagare era stato la perdita dell’innocenza da parte delle popolazioni autoctone. L a convivenza è possibile, secondo la scrittrice, solo se c’è tolleranza, solo se c’è dialogo, inteso come scambio d’opinioni pacifico e rispettoso della diversità. Di fatto, la narratrice di Oroonoko si arricchisce in quanto testimone oculare dei fatti. Conoscere un principe facoltoso e tollerante, costretto alla schiavitù, perché ritenuto inferiore culturalmente, è indubbiamente un modo per mettere allo scoperto la paura– del tutto infondata – degli uomini di fronte alla diversità. La paura dei coloni era di guardare fisso negli occhi di uno schiavo e vedere se stessi e le proprie debolezze in quegli stessi occhi. Per questo, e per la “mostruosità” del suo genio, Aphra Behn fu insultata per tutta la vita, additata come “cattivo esempio” subito dopo la morte, ignorata o svilita come autrice per tre secoli. Un redattore anonimo della “Sunday Review” così scriveva di lei alla fine dell’Ottocento: ”È vero che la sua scandalosa reputazione non le ha impedito di essere seppellita nell’abbazia di Westminster, ma è un gran peccato che i suoi libri non stiano marcendo colà assieme alle sue ossa”.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo