Economia & lavoro
La crisi del lavoro nel 2020
di FABRIZIO RESTA
Quando comincia un nuovo anno, tutti cercano di essere ottimisti, sperando che il nuovo anno porti in dono se non prosperità e felicità, almeno un po’ di speranza per il futuro.
Ve la ricordate la speranza? Le promesse di uscire dalla crisi con qualche piccolo sacrificio? Chi di noi non ci ha creduto almeno una volta, che ce l’avremmo fatta ad uscirne e che era solo un breve periodo di vacche magre. La realtà è risultata ben altra, più simile a delle sabbie mobili dove più passa il tempo e più i problemi aumentano. È questa la situazione del lavoro in Italia che ci ha lasciato in eredità il 2019 e che molto probabilmente ci lascerà anche il 2020: uno scenario da apocalisse e come tale non ci resta che viverla giorno per giorno. La prima vittima del 2020 è dunque proprio la speranza: troppi problemi da affrontare, troppo poche le idee, troppo poche le risorse e soprattutto troppo poche le competenze per affrontarle.
Il lavoro in Italia non c’è. Quasi 3 milioni di disoccupati e chi ha la “fortuna” di lavorare spesso non se la passa meglio: 3 milioni di contratti precari (dati Istat) e altri milioni di lavoratori che pur lavorando, con gli stipendi fermi da anni, hanno una paga che rasenta la povertà. I lavoratori a tempo indeterminato sono rimasti stabili e questo la dice lunga sul fatto che i giovani non riescono a trovare lavoro e se lo trovano è sicuramente da precario. A questo aggiungiamo la piaga del lavoro nero e dello sfruttamento, fenomeni (quelli no) che non conoscono crisi e uno scenario di quasi assoluta mancanza di sicurezza sul lavoro con quasi 1000 morti e con il nuovo anno che ha già registrato le prime vittime, la prima dopo soli 3 giorni (il caso dell’operaio di Chieti schiacciato da un supporto di ferro che si è improvvisamente staccato).
La produzione industriale è in declino e le aziende ormai sono più occupati a chiedere aiuto al Mise o a delocalizzare che a produrre. Attualmente ci sono 149 tavoli aperti nel territorio nazionale, di cui 102 aperti da più di 3 anni. Ce ne sono alcuni aperti da più di 7. Dalla Berloni in liquidazione dove 85 dipendenti rischiano il posto alla Safilo dove gli esuberi sono 700. Dalla Adidas all’ex Auchan, con i suoi 3.105 esuberi, dall’Alitalia, dove sembra fallito il progetto consorziale e che ora il governo cercherà di rendere appetibile con un prestito di 400 milioni ma su cui si dovrà pronunciare la Commissione europea, alla Whirpool e così via.
Se l’Italia piange la Puglia non ride. La Bosh, dopo aver usufruito di tutti gli ammortizzatori sociali, nel settembre scorso ha fatto ricorso ai contratti di solidarietà che scadranno in giugno. I posti a rischio sono 624, su 1.805 addetti. La prospettiva desta grande preoccupazione, vista la specifica crisi del diesel. Il 28 novembre si è tenuto il tavolo al ministero: l’azienda non ha fatto passi avanti, mentre il governo ha proposto un investimento pubblico e incentivi fiscali affinché lo stabilimento sia dirottato verso un prodotto rivoluzionario. Quello che non si è capito è che la crisi dell’auto (non solo del diesel) non è a breve scadenza e che per ridare aria alle aziende del settore è necessario pensare a riconvertirle, passando dal settore automobili a quello ferroviario. Nei prossimi dieci anni le Ferrovie dello Stato stanno preparando un piano industriale che oltre a portare 500 nuovi treni, lancerà le Fs nel mercato su gomma. Probabilmente una riconversione in questo senso porterebbe a più commesse senza dover ricorrere agli esuberi
Stesso discorso per l’Ilva. Taranto per decenni è stata considerata soltanto “la città dell’acciaio” ma in realtà ha delle grandi potenzialità che non sono state valorizzate anche per colpa delle infrastrutture inesistenti. Basti pensare all’assenza dell’autostrada per far capire la forte penalizzazione di una città che difficilmente può attrarre investimenti senza avere una buona rete di comunicazione. L’Ilva potrebbe essere per le Ferrovie dello Stato una nuova ThyssenKrupp, per la fornitura dell’acciaio, allo scopo di aumentare i trasporti via ferrovia; ma non solo: si può investire per trasformare la città in un grande polo industriale per i software e per la logistica, a cui aggiungere sanità specialistica, con tanto di Università, turismo balneare ed archeo-storico sostenibile, agricoltura ed enogastronomia. Le soluzioni ci sono e vanno oltre il solito sistema di: “troviamo chi compra l’azienda”. Ecco perché la prima causa della crisi è l’assenza della politica. Le soluzioni più fattibile non è stata neanche considerata. La Puglia, così come l’Italia deve riprendere a produrre stabilmente lavoro vero e lavoro pieno. Solo questo porterà la Puglia a non espellere più giovani e ad attrarre investimenti importanti… e che sappia ridare la speranza ad un paese che va verso “l’Apocalisse”. Per fortuna l’Apocalisse non è irreversibile…ma ci vuole un governo che sappia fare vera politica e non solo propaganda elettorale.
Fonte foto: lacooltura.com