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28 Ottobre 2024

Addio Controcultura, è stato bello viverti

La cultura underground era un rifugio per chi non si identificava nel mainstream. Oggi, grazie alla globalizzazione, possiamo scegliere tra diverse culture e stili. Anche se il rap ha perso forza, le lezioni della controcultura degli anni ’70 rimangono. Le subculture nascono e vengono subito assimilate dall’industria. Non dobbiamo temere le novità.

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di Alessandro Andrea Argeri

Ogni generazione ha le sue icone. Io mi fermo ancora riascoltare i vecchi QVC (Quello che Vi Consiglio) di Gemitaiz. Era vero rap, quello dove bastava un rullante, una cassa dritta, una voce anche sporca purché ci fosse un testo con dei contenuti, in grado cioè di comunicare un messaggio. Confesso di essere ancora molto legato alla cultura underground, quando non era solo pistole, sesso, droga, misoginia diffusa. Ai tempi una subcultura si riconosceva perché non era spinta dai media ufficiali. Chi la seguiva era considerato una sorta di alternativo se non addirittura un “disadattato”, così venni definito alle medie per aver scritto in un tema di preferire Lil Wayne a Ligabue, lo stesso anno in cui “Tha Carter III” superò le 3,5 milioni di copie vendute solo negli Stati Uniti. Ancora, c’erano codici, linguaggi specifici, vestiari, maggiori possibilità di “fare gruppo”. Erano gli anni di Skrillex, Snoop Dog e Notorius B. I. G. nelle prime casse bluetooth mentre si giocava a calcio per strada. Per i ragazzi di oggi tutto questo non è più praticabile.

La grande paura della globalizzazione era di andare incontro a una pericolosa “standardizzazione culturale”, cioè di venire tutti appiattiti su un unico sistema di valori in nome dell’omogeneità, con le culture locali sostituite o marginalizzate dai modelli dominanti. Ricordate il famoso esempio del McDonald al posto della pizzeria sotto casa? Per avere un buon voto nelle verifiche di italiano dovevamo scrivere di quanto fosse tremendo vedere il piccolo negozietto chiudere o essere costretti a indossare le Nike bianche, come se il consumatore fosse un idiota privo di capacità decisionale. Si è rivelato invece l’effetto contrario: il piccolo commerciante ha specializzato la sua offerta per adattarsi al cambiamento, mentre grazie all’interazione tra culture diverse sono state valorizzate proprio le disuguaglianze.

Di conseguenza oggi possiamo decidere se vestire all’occidentale, col kimono o col burka; possiamo mangiare la pizza italiana, il sushi, il kebab o il pollo del KFC. In altre parole: non c’è più una sola cultura, ma più modelli ugualmente concorrenti in un sistema dove ognuno può scegliersi i propri. Non ci siamo omologati semplicemente perché non sarebbe mai potuto accadere in quanto l’essere umano è un individuo con bisogni specifici prima ancora di un prodotto. Piuttosto, ci siamo adattati alla pervasività del mercato: tanti stimoli diversi per indurci ad acquistare hanno portato il singolo a costruire un’identità frammentaria. Ovviamente al mondo ci sono ancora verità oggettive, per questo non dobbiamo confondere i criteri estetici con i modelli etici.

Oggi un fenomeno come il rap underground non avrebbe la stessa forza culturale di un tempo. Sarebbe utile tenere a mente la lezione della “controcultura” degli anni ’70, quando in opposizione alle norme dominanti, alle convenzioni sociali, nacquero movimenti di protesta definiti “alternativi”. Questi cercavano nuove forme di espressione, altre vie di organizzazione comunitaria rispetto alle istituzioni tradizionali: il risultato fu un’affermazione dell’identità individuale sopra quella collettiva attraverso la musica, l’arte, la moda o ogni altro mezzo creativo attraverso cui poter esprimere la propria visione del mondo. Gli hippie rifiutavano il consumismo in favore della pace, dell’amore libero, dei “momenti psichedelici”; il punk cercava la ribellione tramite un’estetica provocante; i movimenti Femministi e LGBTQ+ hanno sfidato le norme di genere oltre che un’idea di sessualità tradizionale ormai anacronistica in favore dei diritti, dell’uguaglianza​, delle pari opportunità. Ebbene, i movimenti in lotta per il cambiamento, per i diritti civili, il femminismo, il pacifismo, hanno le loro radici in quel gigantesco atteggiamento chiamato “controcultura” rimasto vivo fino all’avvento dei social media – “Controcultura” è anche il titolo di un album di Fabri Fibra del 2010. Oggi però le subculture si sono emancipate. Se ne nascono di nuove, queste subito vengono fagocitate dall’industria, dunque diventano moda. Insomma la stagione della “Controcultura” non ritornerà più, ma è stato bello viverla. La morale dietro tutto questo? Mai avere paura delle novità.

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).