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24 Marzo 2025

Misoginia travestita da critica: il collettivismo autoritario di certi “compagni

Il femminismo non è un nemico del socialismo. Il femminismo è la sua spina dorsale.

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Di Maddalena Celano

C’è una strana ossessione che serpeggia tra alcuni sedicenti compagni: la necessità compulsiva di criticare il femminismo. Non il femminismo liberale, non le derive borghesi dell’identitarismo, ma proprio il femminismo in sé, quello che denuncia la violenza di genere come una struttura interclassista e radicata nella società. Questi “compagni” si atteggiano a rivoluzionari, ma sembrano più interessati a difendere il diritto degli uomini a perpetuare secoli di oppressione sulle donne piuttosto che a combattere le ingiustizie sistemiche.

L’ossessione di negare l’evidenza: la violenza sulle donne non è solo “borghese”

Uno degli argomenti preferiti di questi teorici dell’antifemminismo mascherato è che il femminismo sarebbe una “controrivoluzione borghese” perché divide la classe operaia. Secondo loro, parlare di patriarcato significa distrarre dalla lotta di classe. Peccato che lo stesso Karl Marx e i marxisti della prima ondata avessero ben chiaro che la liberazione della classe operaia passava anche per la liberazione delle donne operaie – non solo dallo sfruttamento capitalistico, ma anche dalla violenza e dall’oppressione domestica perpetrata dagli stessi compagni di classe.

Friedrich Engels, in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, descrive chiaramente la famiglia patriarcale come una struttura di dominio in cui la donna è proprietà dell’uomo, non solo nelle classi abbienti ma anche tra i proletari. Alexandra Kollontaj, rivoluzionaria bolscevica, denunciava apertamente il maschilismo degli operai e la necessità che le donne fossero liberate anche da questa forma di oppressione. Clara Zetkin, una delle più influenti marxiste femministe, parlava di un’emancipazione che non si sarebbe fermata ai cancelli delle fabbriche, ma che avrebbe dovuto riguardare anche la sfera personale e familiare.

Quindi, di quale “tradizione marxista” parlano questi compagni mentre negano l’oppressione di genere? Forse quella del collettivismo gerarchico che nulla ha a che vedere con la visione emancipatrice di Marx e dei primi socialisti rivoluzionari.

Collettivismo o autoritarismo maschilista?

E qui arriviamo al cuore del problema: il collettivismo che certi sedicenti rivoluzionari vogliono imporre non è quello orizzontale e solidale immaginato dal socialismo scientifico, ma un modello autoritario in cui la donna deve essere sacrificata sull’altare della “lotta di classe”, cioè deve rimanere al suo posto, silente e obbediente, mentre gli uomini decidono il da farsi.

Questa non è rivoluzione, è solo una riproposizione del vecchio ordine patriarcale con una verniciata di rosso. Ed è piuttosto ironico che questi “compagni” parlino di superamento dell’individualismo mentre difendono il diritto dell’uomo di mantenere il controllo sulla donna come se fosse un suo possedimento.

Marxisti senza Marx, rivoluzionari senza rivoluzione

Alla fine, questi signori non sono né marxisti né rivoluzionari. Sono semplicemente conservatori con una retorica pseudo-socialista, che usano la lotta di classe come foglia di fico per nascondere il loro fastidio verso qualsiasi messa in discussione del loro dominio di genere.

Se c’è una “controrivoluzione” in atto, è proprio quella portata avanti da loro: un tentativo di riportare indietro la storia, di cancellare il lavoro di generazioni di socialiste, comuniste e rivoluzionarie che hanno lottato per un socialismo che non fosse solo per metà della popolazione.

Il femminismo non è un nemico del socialismo. Il femminismo è la sua spina dorsale. E chi lo nega, semplicemente, ha scelto di stare dalla parte sbagliata della storia!